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Avete presente Angela Merkel? Dimenticatela.
La donna ideale mai scesa in politica, ancora oggi, è una parvenu che sognava di fare la scrittrice ed è finita, dopo una vita rocambolesca, a fare la first lady accanto all’uomo più potente del mondo, prima, e la moglie di quello più ricco (almeno negli anni Settanta) poi. Si chiamava Jacqueline Lee Bouvier, nacque a Newport nel 1937, divenne Jacqueline Kennedy e morì a New York nell’aprile del 1994 come Jacqueline Kennedy Onassis.

Non aveva una reale predisposizione, contrariamente ad Angela Merkel, per gli affari di Stato. Dopo essersi laureata in storia dell’arte, coltivava il sogno di scrivere il romanzo che avrebbe cambiato la letteratura americana. Probabilmente lo ha fatto, ma senza usare la penna. Le è bastato vivere.

Come in tutti i romanzi d’appendice che si rispettino, aveva una mamma che osteggiava il suo talento (ed era ancor più critica nei confronti del suo aspetto fisico), e che la costrinse a sposare uomini ricchi allo scopo di garantire il livello sociale che riteneva competesse loro.

Come in tutti i romanzi rosa, aspettava il principe azzurro che puntualmente si presentò in groppa al suo moderno destriero decappottabile e, nemmeno a dirlo, dopo averla sposata divenne il Numero Uno per eccellenza: non un semplice “trentacinquesimo presidente” degli Stati Uniti d’America, ma colui che nel 1961, in un’epoca che come nessun’altra corteggiò i propri sogni, ne promise la realizzazione, a cominciare da pace e prosperità per tutti.

Come in tutti i romanzi tragici, il bel principe venne ucciso in battaglia, lì dove il teatro di guerra altro non era che una città di affaristi, mafiosi e petrolieri corrotti che approfittarono dei suoi punti deboli e lo lasciarono spirare fra le braccia di lei, sconvolta e imbrattata di sangue, trasformata suo malgrado in un’eroina mitica.

Avete presente Hilary Clinton? Michelle Obama? Il XXI secolo del multiculturalismo e del politicamente corretto come preghiere quotidiane?
Ecco. Passate oltre.

Non perché le Nostre non siano intriganti, intelligenti, a loro modo un punto di riferimento. Mancano però del carisma naturale, leggero e almeno inizialmente inconsapevole che aveva Jackie. Mancano di quell’aura, di quella classe ed eleganza “biologiche” che permisero alla “brunetta regale dalle fattezze di porcellana” di farsi spalancare le porte dei maggiori atelier con un’irruenza da Diavolo Veste Prada, saccheggiarli e costringerli pure a ringraziarla. Please Jackie, can you pose with my gown for «LIFE»?
Garavani sarebbe diventato Valentino grazie a lei, Givenchy e Balenciaga puntarono sui party alla Casa Bianca fra VIP, artisti, Isaac Stern, Gore Vidal e le scazzottate con Robert Kennedy a bordo piscina. La principessa Galitzine le diede i palazzo pants che la sua andatura casual-regale trasformò in capresi. Gucci le porse un assegno in bianco, lei aprì una borsa e ci scrisse sopra «Jackie». I potenti tenevano le sue foto nell’ufficio privato (Nehru, leader indiano). Khrushchev minacciò il mondo coi suoi missili cubani e forse, chissà, arrivò a più miti consigli ricordandosi delle paroline dolci che lei gli aveva sussurrato all’orecchio di fronte ai ballerini viennesi.

Non c’è traccia di Jackie nelle donne del pianeta post post modernizzato.

Le attuali starlette europee del cinema e dello spettacolo in confronto sono groupies sciamannate al seguito di idoli desacralizzati. Le donne della politica (soprattutto le più giovani) assomigliano alle controfigure di serie TV affermate. Fa più first lady la splendida Robin Wright (ex Penn) di House of Cards che una qualsiasi parlamentare europea o americana. A dirla tutta, perfino Donald Trump fa più first lady à la Jackie di una Boschi qualsiasi (no Trump non è né Grillo, né Berlusconi, è una Jackie venuta male).

Ci mancano i suoi viaggi sullo yacht miliardario di Aristotele Onassis, i giornali che s’incazzano perché la bella ha sposato la bestia riccastra.Ci mancano le sue liti con Maria Callas, le colazioni a via Veneto a sputarsi veleno a vicenda. Truman Capote e Zeffirelli che facevano loro da confidenti e tifavano come bambini che si azzuffano all’uscita di scuola per le rispettive madri. La bellezza della sua privacy violata. I suoi strenui tentativi di difenderla. Ci manca un Andy Warhol che decida di dedicarle una collezione di foto, i suoi figlioletti impeccabili nei vestitini acquistati dalle grandi firme, e guai se non era così. Ci manca la sua pazzia di voler trasformare la Casa Bianca in una nouvelle Versailles dove esporre le opere dei pittori più grandi. In un anfiteatro dove ascoltare musica colta. In una sala da ballo dove sfogarsi ai ritmi innovativi del pop. Oggi al massimo trasformiamo Pompei in un rudere bombardato e circondato da discariche nucleari. San Pietro in un vasca per ombrellari. Il Golfo del Messico in una piscina di petrolio e il Medio Oriente in un lager per donne chiuse dai lucchetti a velo forgiati da maschi dalla sessualità castrata.

Jackie voleva salvare il mondo con la bellezza. Ecco perché ci manca. Perché oggi il mondo è brutto, non è né violento, né sull'orlo dell’apocalisse; è semplicemente brutto. E chi ha gusto non può vivere nel brutto, nel pacchiano e nell’orrore quotidiano che il brutto porta con sé. Perché la bruttezza, a differenza della bellezza, non è affatto soggettiva; l’anima la vede subito e fugge. Ecco, Jackie non voleva che questo accadesse, e invece è accaduto. E per rimediare a questo oltraggio (iniziato il 22 novembre 1963 in quella Lincoln presidenziale su Elm Street, sotto il sole di Dallas), ci vorrebbe un dio misericordioso che facesse comparire, da quel nulla che è la Storia, una nuova Jackie. Ma qualcuno ha detto che la Storia, quando si ripete, lo fa sotto forma di farsa. Ed è per questo che continuiamo a vivere di miti. E di cose che ci mancano senza sapere bene quali siano. E ad aspettare invano e ad accorgerci sempre dopo, sempre tardi, like the police on the scene of the crime, di ciò che di bello avevamo. O potevamo avere. Kant diceva che il bello è il bene che si trasforma in sublime e io, oggi più che mai, sono d’accordo con lui.

 

Adriano Angelini Sut  Romano, traduttore e scrittore ha all'attivo diverse pubblicazioni fra cui due romanzi e due guide per Newton Compton. Ha collaborato con il Foglio e Radio Radicale. Prima di uscire con Gaffi ha pubblicato il saggio Mary Shelley e la maledizione del lago per XL edizioni.