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Sopporto sempre di meno i romanzi enciclopedici, mi sfiniscono. Dichiaro subito che non dipende da questioni attinenti al volume. Non posso farci niente: a quarantadue anni non riesco nemmeno a sfiorare con le dita Infinite Jest senza avvertire un iniziale senso di nausea, qualcosa come un'istantanea, vivida repulsione (strano, perché ho sempre trovato eccitanti i libri pesanti, quelli con la costola che si spacca inesorabile a metà, come l'edizione Fandango di DFW, appunto). Eppure sento che riaffronterei allegramente certe scalate impegnative della giovinezza, e muoio dalla voglia di rileggere le scoperte di una maturità che col sottoscritto si è rivelata piuttosto tardiva: Murasaki, tanto per dire. Della Storia di Genji conoscevo più o meno l'argomento, ma perfino una passione per le cose giapponesi frivola come la mia avvertiva quella mancata lettura come una macchia vergognosa (poi ho comprato il Millennio due anni fa, l'ho aperto, ed è stato come liquefarsi ed essere colati in uno stampo per gioielli).

C'è forse un solo libro, tra quelli che sulla carta avrebbero tutti i numeri per farsi rileggere almeno una volta l'anno, che invece non tocco dai tempi dell'università, ed è – stranamente – il Don Chisciotte. Credo dipenda dal fatto che ho dovuto portarlo all'esame di Letteratura Spagnola. Memorabile, quel giorno, anche se piuttosto spericolato, il parallelismo fra Sanson Carrasco nel romanzo e Javier Bradem in Prosciutto, prosciutto di Bigas Luna. Ideuzza di quelle che ti fulminano quando hai meno di trent'anni e i neuroni allineati come un piccolo esercito al tuo servizio. Al professore non dispiacque, per il resto fate voi. In ogni caso ne rivendico orgogliosamente la paternità. Forse ho smesso col Chisciotte (parlo come un ex-tossico) non tanto per la paura (infondata) di non riconoscere più il libro che mi aveva entusiasmato, ma per il (fondato) terrore di non ritrovare in me stesso il fantasioso ragazzo di allora, il falco intertestuale degli anni verdi. E ci avviciniamo al punto: quando il lettore scende nella grotta di Montesinos si entra nella dimensione puramente immaginifica della narrativa (dimensione che Cervantes avvalora anche per mezzo di continui "errori" di costruzione: oggi si direbbe che il suo romanzo è pieno di bloopers) – quanto ci viene richiesto è semplice, istintivo abbandono. Da sempre la narrativa non invoca altro che la nostra fiducia. È come se Cervantes ci dicesse: fai come ti pare, interpreta pure, ma prima di tutto goditi il racconto. L'intelligenza di Borges ha portato questo messaggio alle estreme conseguenze: nel Chisciotte puoi leggere quello che meglio credi, un retoricismo tipicamente barocco, un pragmatismo smaccatamente novecento. Resta il fatto che per il lettore contemporaneo – l'ha detto da qualche parte Jonathan Franzen – il romanzo è diventato (a torto) un oggetto che in qualche modo deve possedere un potenziale istruttivo (strano: perché è più o meno l'accusa che Florence Mathieu, nel senso di un umanesimo ad alto tasso pedagogico, muove proprio allo stesso Franzen). Ho trovato la citazione: è un passo in cui si elegge a virtù specifica l'assenza di "nozioni supplementari" nei racconti di Alice Munro: «Se leggete narrativa che tratta di argomenti istruttivi come l'arte del Rinascimento o qualche importante capitolo della storia nazionale, avrete la certezza di sentirvi produttivi. Ma se la storia è ambientata nel mondo moderno, se le preoccupazioni dei personaggi vi sono familiari, e se il libro vi appassiona talmente che non riuscite a chiuderlo all'ora di andare a letto, allora c'è il rischio che vi stiate semplicemente divertendo». Franzen parla al lettore, ma noi possiamo tranquillamente rivoltare l'osservazione, soprattutto la prima parte, verso (o anche contro) un certo tipo di scrittori: se scrivete narrativa che tratta di argomenti istruttivi ecc... Il nodo della questione è senza dubbio quel «qualche importante capitolo della storia nazionale». Esistono scrittori che riescono a sentirsi produttivi senza sfornare un'enciclopedia culturale del proprio tempo, o almeno del famoso "ritaglio" importante di cui dice Franzen? Io credo che in Italia molti di questi scrittori, anime e passioni diverse, convivano in un solo scrittore, Leonardo Colombati. Gli manca un romanzo in stile Il centauro di Updike, arrotolare la sua prosa attorno al mito classico e poi avrà dimostrato di poter fare tutto quello che vuole. Quando leggi il suo 1960 (Mondadori 2014) ti accade precisamente questo: all'improvviso ti senti intensamente, felicemente, entusiasticamente produttivo. Già comprare il libro ti ha fatto sentire così. È un Colombati, perbacco! Puoi deporlo fra le mani della cassiera senza doverti vergognare del tenore disimpegnato, o perverso, o puerile, o spaventosamente ritardatario delle tue letture (tranquillo, non accadrà mai: per questo genere di acquisti c'è sempre internet). Comunque sì, pagare per "fare il pieno di cultura": immagino sia (anche) questo il piacere della produttività. L'esatto contrario del burrascoso senso di colpa che ti assale quando consegni un centinaio di euro al pusher sotto casa.

Il perdurare, pagina dopo pagina, scena dopo scena, di questa favorevole sensazione nei confronti di me stesso... alla fine mi ha scocciato. Non sarà difficile finirlo 1960 (questa, di fatto, non è una recensione, ma qualcosa di simile a una nota a primo margine), perché Colombati sa trascinarti dove vuole. Il problema non riguarda direttamente il giudizio estetico, anche se a conti fatti dovrebbe. È più un sottile senso di frustrazione (il che significa che il problema riguarda implicitamente il giudizio estetico). Sarà che alla fine detesto sentirmi "produttivo" quando leggo un romanzo. È come se lo stessi pagando due volte. Come l'illuminato operaio che dopo la quarta visita mensile con la famiglia al centro commerciale si rende conto che anche là, durante il suo supposto momento di svago, sta spendendo, consumando, immettendo denaro nello stesso sistema da cui dovrebbe essere in pausa. Perché l'enciclopedismo di Colombati è esaltante nella sua capillarità "orientata" – ancora mi ricordo di quando ho imparato a scuoiare una martora leggendo le prime pagine di Perceber – ma alla fine qualcosa ti sfugge, o ti sfinisce. Ti senti aumentato, partecipi di quella sottigliezza di sguardo così appagante, finché non ti rendi conto che c'è qualcosa che non va. Non trovi nulla a cui resistere, è come quando fissi l'acquario di casa. Solo che l'acquario è più vasto e più profondo e più dettagliato ecc. Cominci a chiederti se in America una classe di professionisti specializzati – i costruttori di acquari – non si arrovelli da anni sul dilemma del Grande Acquario Americano. Perché ti ha colto la quasi-certezza di trovarti finalmente di fronte al Grande Acquario Italiano.

 



Colombati è uno scrittore che fin dal primo romanzo ti cattura con la complessità, da una parte, e soprattutto col "peso" del lavoro (di testa, di penna) che avverti dietro la pagina. Quando uscì Rio nella collana 24/7 di Rizzoli lo lessi d'un fiato, dicendomi: ma che goduria la deboscia italiana alla conquista del Regno Unito! – e ammiravo il coraggio di trascinare la narrativa fuori dal consueto confine nazionale (fuori dal quadretto "sugo & tinello", per dirla con Colombati stesso). Poi la deboscia italiana (borghese & romana) ha colonizzato New York (vedi Class di Francesco Pacifico). Insomma, in Colombati convivono anche il prosecutore di tradizioni (o il perfezionatore: Rio è un romanzo che a suo tempo potevi definire "pipernista", oggi sembra che la spinta a uscire dal tugurio e raccontare le macchie di splendore di certa borghesia, soprattutto fra gli scrittori romani, abbia esaurito l'energia creativa) e lo scrittore abbastanza avventuroso da mettersi su una strada inusuale. Il favolista, per dire. Cos'altro è Il re, se non l'ultimo capitolo di una Storia della Favola, declinato all'ingiù, dove l'Intimo viene scavato all'interno del Pubblico? L'intimo come fase nichilista del privato. Col Gianni Agnelli del suo terzo romanzo Colombati ha smascherato la vocazione nichilista che sostiene, in generale, l'impianto narrativo della favola. Nelle favole il finale ha sempre un aspetto posticcio, di conclusione innaturale: la favola di Agnelli raccontata da Colombati, con l'ultima stella raggiante ingoiata dalle «mandibole del buio», fa saltare quel benedetto tappo – da un po' quando ci penso, mi viene in mente la prima scena di Shrek III, la morte interminabile del re ranocchio, una delle più feroci metafore per il "re malato", per il re "cadente" (controparte letterale: l'immagine di Berlusconi sfregiato dalla madonnina, che opponiamo istintivamente al Berlusconi di Colombati, quello che in Rio promette sfracelli a una ragazza durante una gita in barca: «mia moglie è a Macherio a leggere qualche testo Tao e se mi addormento una mezz'oretta a quella biondina, più tardi, le faccio il culo da par mio»). Colombati è forse lo scrittore che meglio di tutti, oggi, sappia far coesistere il quadrato dell'intelligenza col tondo della scrittura, in uno spazio pressoché privo di residui. 1960 – non so se sia un pregio importante nella narrativa, ma è certo un pregio – ci appare insuperabile nell'arte della citazione, lo spasso totale della letteratura (e non solo) au second degré. Di solito dai sottotesti trapela sempre un odore di avanzo – è il dazio che un autore deve pagare all'incremento semantico – ma il sovratesto di Colombati sembra più funzionale a un gioco di riduzione, è asciutto, non gronda, la frase prende immancabilmente un segno algebrico opposto a quello del modello, per cui il risultato è una leggibilità sgombra, diciamo neutra – anche se poi un semplice periodo può rivelarsi intasato dai richiami. È davvero difficile "segnare" la frase in questo modo, occorre una straordinaria confidenza con l'originale per sventare il rischio dell'identità, anche attraverso una strategia dell'uguaglianza (ancora la lezione di Borges su Cervantes). Credo che siamo nell'orbita della différance, alla Derrida. Ora, che il romanzo di Colombati avvalori Derrida mi sembra, già di per sé, un tributo enorme a questo scrittore. Resta il problema della quadratura – era, praticamente all'inverso, il celebre rimprovero di Garboli a Calvino: lì nei termini della radice quadrata, qui in quelli di un elevamento a potenza. Dove siano le crepe, i "salti d'aria" (altro rimprovero: Montale a Gozzano), le disfunzioni che fanno umano il congegno. La narrativa di Colombati, fin da Perceber, mi ha sempre regalato (sarebbe il caso dire garantito) una solida certezza: questa macchina che hai davanti, lettore, funzionerà, e funzionerà alla grande. Il fallimento non è previsto. Ancora dieci anni fa poteva sembrarmi una clausola accettabile (l'ho detto, maturazione tardiva). Ma un romanzo – è il paradosso eterno dell'ambizione – deve includere la possibilità del proprio fallimento. Una possibile risposta (che ritengo attinente al caso Colombati) l'ha data Queneau. Un esercizio di stile, per quanto perfetto, non fa un romanzo. Ma cento esercizi di stile? Il fallimento implicito a un romanzo che in ogni capitolo ripete se stesso in un linguaggio differente sta nell'umana, indifferibile miseria che sottende il catalogo. Ti racconto questo fatto in cento modi. Perché non mille? Pazzesco, la combinatoria di Queneau (cosa c'è di più cerebrale?) parla al cuore: guarda quante possibilità esistono! – che poi è come dire: fallisci con me, è destino, perché abbiamo inventato cento lingue, e non sono ancora niente.

 

Nota notturna: È passata mia moglie a darmi la buonanotte mentre lavoravo al computer. Stavo per buttare lì il solito "dieci minuti e arrivo", invece le ho fatto una domanda. Mia moglie è una filologa, grecista. Le ho chiesto, così, a bruciapelo: «Mi dici una frase celebre di Ulisse?». La risposta: «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguire virtute e canoscenza». Ha incassato il mio ghigno e se n'è andata a dormire. Non conserviamo a memoria l'enciclopedia tribale di Omero, ma il romanzo fallimentare di Dante.