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Scrivo da Recanati.
 No, non è vero. Ma sarebbe bello.
 Purtroppo da sempre, con scelta drastica e inflessibile, mi sono precluso anche la sola idea di visitare Recanati. Ho un'amica glottologa che abita lì, sono anni che mi invita, io persisto nei miei ottusi dinieghi. A dire il vero quand'ero studente stavo progettando una gita di qualche giorno. Come hotel avevo scelto "La ginestra". Poi meditavo almeno un paio di pranzi al "Passero solitario" o alla "Donzelletta". A un tratto ho cominciato a chiedermi se sarei finito a fare quattro zompi alla discoteca "I nuovi credenti", o se per avventura non mi sarei ritrovato ospite del circolo anziani "Le rimembranze". Okèy, le ultime due me le sono inventate. Ma avete capito, no? Non ci sarà forza al mondo che riuscirà a trascinare le mie chiappe da qui alla Marca. Preferisco che Recanati rimanga un luogo dell'immaginario. Così quando mi prenderà la tentazione di buttare giù e assaporare un rigo che dice «vi scrivo da Recanati...» la cosa rimarrà una faccenda fra me e il territorio mentale sgomberato da anni di letture leopardiane. Sarà come dire: «vi scrivo da West Egg», o ancora: «vi scrivo da Combray».
Quella su West Egg potete toglierla, se volete.

Ho già superato le milleduecento battute, sto cercando di tergiversare e non dire la mia sulla storia del Colle. Pare che edificheranno una roba al posto di una casa colonica, non ho ben capito leggendo le veline: forse un resort, forse un'abitazione privata con un mare di cubatura in eccesso rispetto al manufatto originario. Il TAR contro i Beni Culturali. Franceschini è sceso in campo per difendere il Colle. Quando si dice una frase ambigua. Comunque, l'allarme è suonato: Vogliono sfregiare il colle! – sì, il colle dell'Infinito. Della siepe, si sa, non è mai fregato niente a nessuno.
L'altro giorno ero in metro, sulla fetida linea A di Roma, spinto dall'esigenza di raggiungere il centro nonostante la maratona. A un certo punto è entrato un vecchio che piangeva, e piangeva miseria: «...manco un pacco di pasta mi posso comprare, manco un barattolo d'olio di semi». Non era una sceneggiata, era vero accoramento, ce ne siamo accorti tutti. Si gira una donna e con straordinaria dolcezza gli sussurra: «Non pianga, non faccia così». Il vecchio naturalmente ha preso a piangere più forte. A volte l'idea stessa che qualcuno sia lì per confortarci – cosa che non ci saremmo mai sognati in vita nostra – ci abbatte definitivamente. Stavo per offrire tutta la mia ammirazione a questa signora dai modi gentili, quando lei ha continuato: «Le dico cosa deve fare: deve andare a Striscia la Notizia!».

Non so perché mi è venuta in mente questa cosa, parlando del colle. Forse ho trovato in quella battuta la misura della solidarietà contemporanea. La donna era convinta di quel che diceva. Forse era destino che gli anni del Comico soppiantassero gli anni del Patetico, non lo so. Onestamente se saltasse su qualcuno a dirmi: «Siamo un Paese in malora, me ne sbatto del colle!», oppure qualcosa di più articolato, come: «Guardati attorno: preoccuparsi del colle è una vera immoralità», non saprei cosa rispondere. O meglio: so cosa rispondere, ma sono troppo stanco per farlo. Da ragazzini sfregiavamo il colle mescolando al primo endecasillabo dell'Infinito il secondo di A Zacinto: «Sempre caro mi fu quest'ermo colle / ove il mio corpo fanciulletto giacque». Al mio professore, un padre mercedario che riusciva disinvolto solamente quando si girava di spalle per comporre alla lavagna superbi schemi danteschi, veniva la flogosi alle orecchie. Passatempi da rancidi secchioni. Invece al giorno d'oggi sfregiare il colle è diventata una tendenza di massa. Ma se ci sediamo un attimo e guardiamo...