Elogio della dialettica René Magritte 

 
Segre non è mai stato una mia passione accademica, e dire che ho fatto tutto il cursus honorum della critica letteraria, cioè dell'appassionato di critica letteraria, quella particolare situazione del pensiero che trova nella forma del saggio – ma non solo – la sua dimensione vitale: la cultura, il tocco di sensibilità personale, anche squisitamente biografica, la forza politica degli enunciati. La critica è sempre stata un territorio appassionante, non un'alternativa al romanzo, ma qualcosa che poteva stargli, avventurosamente, accanto. Un'avventura del pensiero dentro se stesso. E tuttavia Segre non mi appassionava. Mi piaceva la critica che sapeva specchiarsi in una prosa superba e raffinata: Giovanni Macchia, Cesare Garboli. Mi tormentava l'idea di una critica capace di dominare a tal punto l'architettura della conoscenza da spingersi dentro l'oggetto estetico addirittura con la forza di una colloquialità fondata su leggi proprie, autonome. Il punto forse più alto di questo ideale di critica era Gianfranco Contini. C'è sempre qualcosa che ti spinge fuori, nella prosa di Contini. Lo vedi che interroga Montale e ti sembra di essere un sordo che cerca di decifrare un dialogo fra due sconosciuti. È senza dubbio una forza viscerale della critica, che revoca in dubbio la sua autentica vocazione al "servizio". In Contini c'è questo tratto misterioso, tra passaggi anche sintatticamente difficili, per cui nel lettore s'insinua l'idea che quanto è stato detto su Montale possano capirlo solamente Contini e Montale stesso. Ed è vero, come è vero che spesso Montale usò le osservazioni di Contini (un Contini ventiseienne!) per mettere a fuoco e precisare a se stesso la propria poetica.


In Segre è tutto limpido, invece, cultura aperta, sedimento ed emanazione di una robustosa formazione filologica addirittura pre-accademica. Un Maestro d'altri tempi, come si direbbe, e come molti diranno nelle prossime ore. Un Maestro da porre agli antipodi delle miserrime baronie che ormai da qualche decennio allignano e prosperano nell'Università italiana. Non che non siano esistiti Maestri/Baroni. La distinzione qui fa tutt'uno con lo stile dell'uomo, e con la centralità dei suoi studi. Perché Segre poteva non appassionare – il filologo che s'era subito voltato ai Francesi, al primo stormire delle fronde strutturaliste, e poi di seguito ai Russi (ancora nei primi anni novanta, ricordo, Lotman era una lettura obbligatoria in qualsiasi corso di Critica Letteraria) – ma non potevi evitarlo.

Un tempo ero convinto che l'Università fosse il migliore dei mondi possibili. A quel tempo il solo pensiero che al momento della mia nascita Segre fosse già in cattedra da una ventina d'anni mi faceva tremare le vene e i polsi. Ammirazione, naturalmente, e il timore sempre sottinteso per un personaggio che non potevi non immaginare intento a vivere la propria esistenza in una caverna scolpita di libri. Le bozze di Strumenti critici, i testimoni ariosteschi. Macchia era una mente lontanissima, nutrita a sangue sull'aspirazione alla totalità della critica – poi tramontata. Garboli invece t'insegnava una tonalità della critica, riuciva a possedere intimamente le frequenze dei suoi autori prediletti, da Moliere a Penna, e il prezzo da pagare per lasciarti condurre nelle loro stanze era quel bagno continuo, quell'immersione senza sosta nella sua intelligenza. Debenedetti era un rabdomante. E Contini... diciamocelo, sembrava un alieno, se avesse giocato a basket sarebbe stato Michael Jordan (e che una divinità mi fulmini se ho mai visto un arbitro sanzionare i passi a Michael Jordan). La lista potrebbe continuare: Solmi, Cecchi, Praz... una lista che si assottiglia man mano che ci avviciniamo a noi. Mi rendo conto che il parallelismo è forzato: da sempre abbiamo profili di critici e studiosi per così dire "regolari", accanto agli "irregolari" – in cui stavano tanti nomi dei miei favoriti. Occorre prestare molta attenzione all'uso del concetto di militanza, anche questo insegnano certe carriere esemplari. C'è la critica come "stanza separata", alla Garboli. C'è la critica come "stanza della tortura", secondo una celebre definizione di Macchia per il teatro di Pirandello. E c'è la critica come teatro, appunto, e spesso è un teatro personale abitato da fantasmi mobilissimi e inquieti. La nostra, a ben guardare, sarà sempre una lista frastagliata, come quei cataloghi alla John Wilkins, furiosamente eclettici. Nel piacere della passione per la critica quanto esercizio infinito dell'intelligenza possono convivere stature anche lontane – Bo e Fortini, Eco e Berardinelli. In questa lista, l'ho detto, Segre rappresentava lo studioso per molti versi inevitabile (penso solamente alle numerose sue pagine critiche antologizzate nei compendi liceali). Intercettava e aderiva alle tendenze "di moda"? Ebbene? L'anima del critico, e ancora prima dello studioso, quando sanno corroborarsi e sostenersi a vicenda, hanno mille versi, e a ognuno di questi versi potremmo ricondurre una certa sfumatura di fascino – quanto nella misura della prosa ci attrae o ci respinge, quanto nell'argomentazione convince a colpo d'occhio o si lascia beatamente detestare. Così Segre, ancora per chi ha iniziato gli studi universitari come me, nei primissimi anni novanta, è stato semplicemente "l'ambiente" in cui ci si trovava immersi. E se con la sua scomparsa il "mondo culturale" perde qualcosa, be', perde innanzitutto un modello serio cui somigliare.

 

 *Elogio della dialettica, René Magritte