Aldo Balding

 

Secondo un'idea piuttosto diffusa, molti di noi sarebbero attratti dagli amori tormentati; quelli che, se sei un animo sensibile, ti tolgono l'appetito, il sonno e ti rendono canuto prima del tempo.
Uno psicoterapeuta direbbe che, probabilmente, il poco amore ricevuto durante l'infanzia ci ha spinti a trarre un certo tipo di conclusioni inconsce: l'amore non lo meritiamo o, comunque, dobbiamo soffrire per ottenerlo.

Un cinico direbbe che, evidentemente, le favole ascoltate durante l'infanzia – sì, l'infanzia c'entra sempre – ci hanno dato alla testa, portandoci ad associare l'amore vero a peripezie e patimenti di ogni sorta (ma poi chissà quante sofferenze nasconderebbe, anche una simile stroncatura, se è vero, come ha scritto di recente Piperno in un articolo su La grande bellezza di Sorrentino, che il cinico è un sentimentale in pensione...).

Ad ogni modo, forse nella vita, a un certo punto, possiamo provare a invertire l'infausta tendenza, evitando relazioni che promettono chiaramente lacrime e sangue, ma di queste lacrime e di questo sangue siamo sempre assetati, quando si tratta di leggere un romanzo.

Gli ostacoli, lo sappiamo, rappresentano la condicio sine qua non perché un racconto possa funzionare. Prendi un personaggio e fagli vedere i sorci à pois: è la regola numero uno della narrazione. Ecco, le difficoltà, per certi versi, servono ai romanzi sull'amore quasi più che alle spy story. Come altro esorcizzare, infatti, i rischi legati alla trattazione di una materia che sembra rimandare inevitabilmente, almeno di primo acchito, alla banalità? Parafrasando Tolstoj, potremmo dire che tutti gli amori felici si somigliano, mentre ogni amore infelice lo è a modo suo. In altre parole, l'unicità risiede nella sofferenza.

I crucci possono anche essere minimi, ordinari, eppure sulla pagina si dilateranno, assumendo una dimensione tragica che in teoria non gli apparterrebbe, ma che gli spetta senz'altro – a meno di non voler essere superficiali –, come nel caso de Gli amori difficili di Calvino, in cui figurano racconti di straordinaria delicatezza. Oppure si tratta della vana lotta contro il tempo che corrompe l'oggetto della pulsione amorosa (Lolita di Nabokov); o di una condizione di irrimediabile solitudine, che induce a languire in un amore platonico destinato a tramutarsi in estremo sacrificio di sé (Il fidanzamento del signor Hire di Simenon); o dell'incapacità di scelta tra due diverse figure femminili, che rispecchiano l'ambivalenza lacerante di una personalità in via di definizione (Tokyo blues, Norwegian wood di Murakami); o delle insidie annidate in uno scambio epistolare tanto sensuale e coinvolgente quanto destabilizzante (Che tu sia per me il coltello di Grossman). Oppure, ancora, a entrare in gioco è l'ossessione patologica per qualcuno che non ricambia né mai ricambierà, e nella cui indifferenza ci si ostina a voler cogliere segnali di interesse (si chiama sindrome di Clérambault), come in L'amore fatale di Ian McEwan.

Il dolore amplifica l'esperienza amorosa, diventa misura della sua intensità, la riscatta da un'anemia fin troppo diffusa nel quotidiano, che non ci dispiace dimenticare; almeno quando ci trasferiamo su quel piano altro offerto dalla letteratura, cedendo legittimamente alla malia del sogno, in fondo senza troppo rischiare, visto che ci è richiesta "solo" l'immedesimazione in qualcun altro. E anzi, assunto per questa via, il dolore può rivestire una funzione omeopatica, catartica o addirittura apotropaica, a seconda di chi siamo e di che vita abitiamo.

Sì, decisamente. Un amore tormentato senza ghiaccio, grazie. Di refrigerio, in questo caso, non c'è affatto bisogno.

Mira Costanzo

*Aldo Balding