Tra le tante cose di cui siamo allegramente prigionieri, vi sono le immagini. Alcune immagini. Viviamo inconsciamente settati su icone fabbricate con una logica alla Windows: per essere
accessibili a tutti e a tutti imporsi. Ci andiamo pazzi. Ed è per questo che, quando la realtà si rivela un po' più complessa, sfuggendo alle nostre sintesi o associazioni immediate, è lo stordimento.

 Pensiamo a questa campagna elettorale per la presidenza USA, ormai giunta alle battute finali. Siamo ancora qui a chiederci come mai Romney, il repubblicano, nei duelli televisivi non sia stato propriamente affondato da Obama, il democratico, nero, che può già vantare un suo ritratto seriale (by Mannie Garcia) sui muri e sulle magliette, ideatore di uno slogan che la sinistra italiana ha più o meno rabberciato e disperatamente cercato di riproporre. Ohibò. Com'è?! Qualcosa non torna... Nel ring televisivo Obama ha vinto ai punti, dopo un primo round che l'ha visto barcollare. Ma il fatto è: non ha vinto facile. Il motivo, forse, è marzullianamente dentro di noi. Noi che abbiamo in testa una tag prestampata di cosa, anzi, di come è l'uomo politico democratico americano. Semplice: è Kennedy, con la schiena a pezzi ma il profilo da attore, che surclassa il sudatissimo Nixon; è Il candidato Robert Redford – la «metafora dell'America», come di lui dice l'amico e regista Sydney Pollack – con le maniche della Brooks Brothers arrotolate, la cravatta lenta, lo sguardo glauco e innocente da liberal mentre grida: «Possiamo cambiare le cose!»; ed è Obama, metabolizzato come un Robert Redford di colore, che con la stessa camicia oxford, le maniche ugualmente arrotolate e la cravatta lenta intona il suo «Yes we can».

 Mi trovavo a New York nei giorni in cui Barack Obama, non ancora presidente, sorprendeva tutti battendo Hillary Clinton alle primarie democratiche nel New Hampshire. In albergo guardavo la CNN e sentivo per la prima volta la cadenza tutta spiritual, l'energia oratoria, l'ispirazione martinlutherkinghiana di quel «Yes we can».

Certo, ero già felice per il fatto di essere in vacanza, perché fuori nevicava e tra pochi giorni avrei festeggiato l'ultimo dell'anno a Times Square, ma in quel momento, di fronte alla TV, ricordo di aver assaporato una breve scossa di felicità ulteriore. Quella spudorata del tifoso. Colpevolmente, leggiadramente, non me ne fregava granché dei risvolti politici. Col senno di poi, posso riconoscere che facevo istintivamente il tifo per Obama, uno che mi permetteva di pensare "Finalmente un eroe. Un nuovo eroe. Era ora". Ricordo che mia moglie, assuefatta come tutti noi a quella paradossale mitologia che solo gli americani sanno (hanno saputo?) confezionare e distribuire al mondo, se ne uscì con un macabro «Se lo eleggono rischia che lo ammazzano». Già, il mito tutto americano dei presidenti sparati, uccisi, feriti, come tanti predestinati Ettore di fronte alla potenza sleale perché semidivina del tycoon Achille, Colui che controlla le lobby, che fa affari con i terroristi nei paesi ricchi di petrolio, che non vuole la sanità pubblica, che abita gli attici di Park Avenue, ha una terza moglie di 18 anni e nipoti già prossimi alla pensione. Lui, il cattivo plutocrate, avrebbe cospirato senz'altro con mafia, servizi segreti deviati, falchi annidati a Washington, qualche matto preso dalla strada, un paio di guerriglieri di Hamas, la lobby delle armi orfana di Charlton Heston, per far fuori Obama. Il presidente democratico. Che però adesso è prossimo al secondo mandato. È vivo e vegeto, seppur con molti più capelli bianchi. E io continuo a fare il tifo per lui, anche se a Romney non gliele ha suonate come tutti pensavano avrebbe fatto. Perché Romney sarà pure repubblicano, ma come dicevamo la realtà non è sempre liofilizzabile nelle facili pillole che siamo abituati a mandar giù.

Il repubblicano Romney non è un bifolco affetto da dislessia. Non ha il cappello da cowboy calcato sulla testa. Non mi pare gli si inzuppi il collo della camicia durante le riprese televisive. Viene dal Michigan, e non biascica alcuna poltiglia texana di sillabe balbe. Sa stare al mondo, sembra. A dir la verità è pure belloccio, di quella bellezza mascelluta che hanno certi americani di mezza età. Nessuno lo dice, ma a rendere mediamente più belli i politici americani rispetto a quelli italiani è il naso dritto. A differenza dei latini, dove i tratti regolari sono rari e Pier Ferdinando Casini è considerato un bell'uomo solo perché non ha la faccia come quella di Alfano o di Veltroni, in America c'hanno i nasi dritti. Facce noiosamente prive di difetti vistosi. Ma torniamo a noi. Obama. Anche lui, come disse un celebre stilista a proposito di Che Guevara, dopo averne stampato il volto su t-shirt tempestate di strass vendute a 4000 euro l'una, «un'icona pop che attraversa il mondo».

Obama è l'unica icona pop "seria" che abbiamo adesso. L'unico caso in cui una tale santificazione estetica ha riguardato un personaggio ancora in vita e nel pieno della sua attività. Forse c'è una ricerca insoddisfatta di altri volti candidabili. Anche se le icone, i francobolli che affrancano la nostra immaginazione facendola viaggiare, ci fanno arrossire con la loro necessaria banalità. Alzi la mano chi, inseguito dal sogno di pubblicare il suo romanzo, quando pensa allo "scrittore" non visualizza d'incanto il barbuto Hemingway che batte a macchina col mare di Bimini sullo sfondo. Non ha nulla a che fare con i propri gusti letterari. È lui la sineddoche iconografica dello scrittore moderno. Sotto i ritratti di Barack Obama, per renderci più facili le cose, appare di frequente la parola HOPE, a caratteri cubitali.
In modo altrettanto didascalico, anche noi che amiamo il cinema e le camicie Brooks Brothers speriamo che martedì il vincitore sia lui.

Christian Soddu