Un'imprecazione sfugge all'uomo che mi viene addosso, smozzica uno «scusi», forse più per la mezza bestemmia che per l'urto. Dopo la frenata, l'autobus riparte con raschi e singulti, e tutti noi ci aggrappiamo più stretti ai sostegni. È ora che lo vedo. La sua testa emerge tra decine di altre teste e braccia scimmiescamente appese, il volume raddoppiato dalle boe appiccicate alle orecchie.
 Sono cuffie, cuffie per ascoltare la musica, pezzi di modernariato provenienti dal corredo di qualche zio o fratello maggiore cresciuto in era pre iPod, tra vinili, musicassette e stereo Pioneer grossi come armadi. A molti, ho scoperto, piace portarsele in giro e usarle al posto degli auricolari. Per isolarsi meglio, forse, ma niente sociologia spicciola per carità. Solo la sorpresa di constatare come, per quanto possa risultare scomodo e pressante l'ambiente che ti circonda, per quanti gomiti tu possa avere piantati nelle costole, la mente non rinuncia alle sue vie di fuga romantiche. E infatti il tizio con le mega cuffie in testa, tra tutte le associazioni mentali possibili – un giocatore di pallanuoto, un astronauta, un pilota d'elicottero, ciribiribì Kodak – mi fa pensare subito al Tempo delle mele.

È stato solo un caso che non abbia potuto leggere nulla sulla morte di Claude Pinoteau, lo scorso venerdì. Però lo ammetto: a me il povero Pinoteau stava un po' antipatico. Da quando ho avuto occasione di vedere, diversi anni fa, gli extra contenuti nel DVD del suo film più celebre.
Il documentario sulla lavorazione del Tempo delle mele e su quella nidiata di attori ragazzini – a eccezione di Sophie Marceau tutti più o meno tornati da dove venivano, ossia nelle banlieue, nelle scuole di periferia, in qualche teatrino off, in una palestra per continuare a sperare di diventare un ballerina classica di livello – si concludeva col fermo immagine su una foto di gruppo un po' sgranata, in cui tutti gli interpreti del film sembravano simili a sorridenti fantasmi di una scolaresca dispersa dal tempo.
Non so, forse l'effetto sarebbe stato meno struggente se su quella foto non fosse apparsa a tradimento, un attimo prima dei titoli di coda, la frase «Gli anni felici sono anni persi». Proust, se non erro. Manca la voglia di controllare.
Ricordo che strappai via il DVD dal lettore, spensi la TV e mandai al diavolo i produttori del documentario. Nel corso del quale avevo perfino ascoltato Pierre Cosso, intervistato vent'anni dopo le riprese, esprimere parole di riconoscenza mista a un percettibile livore nei confronti del loro pigmalione, colpevole di aver ostacolato in tutti i modi la relazione tra lo stesso Cosso e la Marceau, iniziata durante la lavorazione del Tempo delle mele II. Insomma, pare che Pinoteau non avesse occhi che per Sophie, e che la sua gelosia da "padre artistico" della ragazza fosse un po' eccessiva.
Ora, non è dato sapere se certe illazioni, sempre affioranti quando si scrutano le celebrità o si ripercorrono le altrui fortune, abbiano una qualche fondatezza. Quello che conta è che, al di là di una sottile antipatia indotta, oggi sono riconoscente a Claude Pinoteau: non è il fatto che grazie al suo film m'innamorai seriamente per la prima volta – vale a dire per sempre – di Sophie Marceau; non è nemmeno il fatto di averci fornito una scena archetipica che chissà quanti avranno tentato di imitare (l'unica volta che ci provai io, tredicenne, alla festa di compleanno di un compagno di classe, il solo pezzo tra i CD a disposizione che risultasse vagamente adattabile alla bisogna era Diamante, di Zucchero. La scena grottesca, dunque, è quella del sottoscritto che ha in mano un lettore portatile, il tasto repeat premuto su Diamante; lo vediamo approssimarsi di soppiatto alla malcapitata che gli dà le spalle, lo vediamo sollevare lentamente le cuffie, prepararsi al complicato gesto di mettergliele in testa; osserviamolo teso nell'ansia di coordinare il tutto, il lettore non gli deve cadere, le cuffie devono scivolare morbide sui capelli castani di lei, ecco, adesso... Ma all'improvviso un grido surreale squarcia l'aria – «NOCCIOLINEEE!!!» – e un arachide salato lo centra in un occhio. La ragazza si volta e scoppia a ridere, sportiva e nient'affatto infastidita per la gragnuola di noccioline che d'un tratto investe entrambi, che investe ogni cosa, mentre scoppia il tutti contro tutti a colpi di arachidi, un quarto d'ora di guerra vera, e lo studio che il padre del mio amico ha messo a disposizione per la festa ridotto a un macello... Insomma, solo per dire che se a me la musica piace ascoltarmela seduto in poltrona, con il mio vecchio scassone Pioneer acceso, niente iPod, niente auricolari conficcati nei timpani, un motivo c'è).
Come accade a volte con certi film o certi libri, Pinoteau ha dato un volto a un'età, ha stretto in pugno la vischiosa manciata d'anni dell'adolescenza, li ha scossi appena, ci ha soffiato sopra, attento a non lasciarseli scappare, poi ha riaperto la mano, e ne è saltata fuori l'immagine iconica di una ragazzina che si volta speranzosa e anche un po' sconcertata perché all'improvviso nella sua testa avvolta dalle cuffie risuona un'altra musica, diversa, nuova, più dolce di quella che tutti sentono. E a sentirla sono soltanto lei e quel ragazzetto orrendo che a lei piaceva. E i luoghi comuni sull'amore ci dicono che entrambi l'avrebbero sentita anche senza cuffie. Ma la freschezza della scena resta intatta.
Bisogna essere ciò che si racconta, per catturarne l'essenza. James Barrie, un bambino intrappolato nel corpo di un adulto, ci ha regalato la miglior rappresentazione possibile dell'irriducibilità dell'infanzia, col suo anarchico nodo di gioie e dolori; Philip Roth, probabilmente già vecchio dall'età di 15 anni, restituisce come nessuno il senso entropico dell'esaurimento, della vitalità frustrata dal decadimento fisico, che attende ogni uomo al tramonto. Il regista francese, vivendo per settimane in mezzo a un nugolo di tredicenni che recitavano se stessi, avrà avuto il privilegio di abbracciare col suo sguardo il Prima e il Dopo, la fragranza di chi deve solo sognare e innamorarsi accanto all'esperienza – la sua – di chi ha sognato e ha amato. Forse Pinoteau le sue cuffie se le era già tolte da un pezzo. E ha creato qualcosa che, oltre i confini di quella celebre sequenza, per tutti i 110 minuti del film, le fa indossare a noi. Forse, anche grazie a lui, quella musica che ci arriva da un punto lontano alle nostre spalle la percepiamo un po' più nitida. Ogni tanto, richiamati, ci voltiamo e tendiamo l'orecchio per ascoltare meglio, poi torniamo a guardare avanti. Ma qualcosa è rimasto, un paio di note ancora, nello sferragliare dell'autobus che ci porta incontro alla giornata.

Christian Soddu