– E quest’altra cosa che hai scritto cos’è? La storia della crescente umiliazione. Un saggio, giusto?

Richard accavallò le gambe, poi le riaccavallò. […] – Dovrebbe essere un libro che spiega il declino delle condizioni sociali e della virtù dei protagonisti delle opere letterarie. Prima dèi, poi semidèi, poi re, poi grandi guerrieri, grandi amanti, poi borghesi e mercanti e parroci e dottori e avvocati. Poi il realismo sociale: tu. Poi l’ironia: io. Poi maniaci e assassini, barboni, canaglia, feccia, relitti umani, parassiti.

Gal lo stava guardando. – E come lo spiegheresti?

Richard sospirò. – Con la storia dell’astronomia. La storia dell’astronomia è una storia di crescente umiliazione. Prima l’universo geocentrico, poi l’universo eliocentrico. Poi l’universo eccentrico... quello in cui viviamo adesso. Secolo dopo secolo rimpiccioliamo. Kant aveva già capito tutto, senza muoversi dalla sua poltrona. Com’è che dice? Il principio della mediocrità terrestre.

– ...Un librone.

– Un librone, – confermò Richard, e aggiunse: – Piccolo mondo. Grande universo.

 Questo brano è magistrale per svariati motivi. Il primo è che, acriticamente, tutto ciò che è contenuto nel romanzo* da cui il brano in questione è tratto, comprese le briciole di pane schiacciate tra le pagine, è per noi indiscutibile, inattaccabile, luminoso ed eterno.

Il secondo, meno importante come tutto ciò che scivola nel campo ben pettinato e noioso dell’oggettività, è che l'autore condensa in mezza pagina l’intera storia di ciò che chiamiamo romanzo: ciò che altrove è detto nello spazio di un’enciclopedia.

Ha ragione? Non ha ragione? Ha ragione quando elenca i dati di fatto. E, riteniamo, anche quando esprime il giudizio morale al riguardo. «Crescente umiliazione». Già. «Rimpiccioliamo». Eh sì.

Il tempo degli dèi è passato. E non possiamo farci niente. Letterariamente, nel corso del secolo appena trascorso abbiamo iniziato col frugarci la testa, poi le tasche, poi le mutande, via via sempre più in basso, e siamo scivolati a rendicontare le gesta di psicotici criminali, psicotici poliziotti, psicotici impiegati, psicotici uomini qualunque, magari questi ultimi resi grandi da un Philip Roth qualsiasi. E forse, però, qui e là affiora un desiderio. Forse cerchiamo altro. Qualcosa di meno conosciuto, che ci sussurri da meno vicino, che ci faccia meno paura, che non abbia la nostra stessa faccia, che non trascorra come noi una notte all’addiaccio per accaparrarsi l’iPhone5.

Oggi, ciò che di più vicino può esserci a un eroe, finanche a un semidio se è fortunato, è il campione sportivo. Il fuoriclasse. Colui che custodisce l’unicità in un gesto. L’abbiamo visto accadere mille volte, ma è sempre scioccante. Accade che nel gesto si rintani il germe dell’inimitabilità; nell’anonima universalità dell’azione motoria si annidi il genio; nel reame della plasticità spiri il vento anarchico del talento; dall’invisibile ripetitività di contrazioni muscolari e articolazioni che si distendono si sprigioni la luce. È una luce che acceca. Chiudiamo gli occhi di fronte al disordine dell’unicità. E mentiamo spesso e volentieri, quando diciamo «Io c’ero». Balle, non l’abbiamo voluta vedere quella punizione ai limiti dell’area, abbiamo distolto lo sguardo allo schiaffo al volo proprio sul match point.

Forse è questo, una tensione antropologica mai sopita, oggi riaffiorante, che spiega il successo di certa “letteratura sportiva”.

Open, la biografia di Andrè Agassi, in Italia vende 50 mila copie in un’estate. Si raccolgono, ripubblicano e definiscono “saggi” gli ispirati cazzeggi di David Foster Wallace sul tennis, in cui si parla di “Momenti Federer” alla stregua di intuizioni kantiane e si utilizza un gioco quale grimaldello filosofico per scardinare l’esistenza umana, i suoi reiterati eppur sempre misteriosi ingranaggi. L’occhio di Del Piero che brilla sulla copertina patinata della sua biografia, i tatuaggi di Ibrahimovic in bella mostra a “vestire” il suo Io Ibra, i reportage di Gianni Brera sull’era nobile del ciclismo da poco riproposti, la nuova biografia di Maradona pubblicata da Fandango con prefazione di Sandro Veronesi, la mondadoriana Vezzali, pure lei, col fioretto in pugno… Vendono, questi libri. Si leggono, gli sportivi. Perché l’unica epica oggi possibile è lo sport. E di epica noi abbiamo bisogno.

Non ci sarà più Buzzati che ci canta di Coppi e Bartali, né Malaparte che stiletta da par suo sullo stesso tema, ma cerchiamo le sfide. Altrui, s’intende.

Il tempo degli eroi è finito d’avvero. Il fatto che li cerchiamo, li desideriamo, è tutt’altra storia. Sui rettangoli di gioco, ring e piste d’ogni tipo. E magari, sì, anche in strada... Fateci sognare adesso, anche in strada, fuori da un impianto sportivo, magari con occhiali da vista e un libro in mano al posto di guantoni o racchetta... Proviamoci, a sognare per un attimo altri eroi, altre sfide, e se siamo fortunati (ma la fortuna non esiste) vedremo Ostuni e Carofiglio sfidarsi a singolar tenzone.

Erano eroi Puskin, D’Annunzio, Ungaretti, Bontempelli, tutti gli scrittori che brandirono lame e impugnarono pistole all’alba, in qualche parco brumoso? Forse lo erano, ma non per quello, non per aver deciso di menarsi a vicenda. Il loro eroismo è stato quello di non romperci i maroni. L’eroismo del buon senso. Merce eroica perché, a quanto pare, quasi scomparsa.

Christian Soddu

*L’informazione, Martin Amis (Einaudi, Torino, 1996)