Nel documentario che il figlio Jacob Bernstein ha diretto su di lei, vediamo Nora Ephron mentre racconta a un giornalista la sua fantasia sessuale più frequente e scabrosa: un uomo senza volto la fissa con desiderio e poi, all’improvviso, le strappa tutti i vestiti di dosso. Non occorre essere cinefili per riconoscere la fonte di una battuta di Meg Ryan in Harry ti presento Sally.

Nel flusso narrativo del film, come in ogni buon dialogo che si rispetti, la battuta non funziona in sé, ma in virtù del colpo di coda finale. Billy Crystal, con l’arrogante scetticismo del suo personaggio, le chiede se davvero la sua fantasia sessuale sia questa, sempre la stessa, e lei risponde di no, non sempre. «Cioè?». «A volte cambio i vestiti».

Questa è la sceneggiatura; questo è il film.

Nella realtà – una realtà prestata, votata e vocata alla fiction – il raccontino della Ephron sarebbe stato simpatico ma niente di che, se si fosse fermato lì. Ma anche stavolta abbiamo la cesura che illumina tutto: un tizio che le strappa via i vestiti, ok… il giornalista la guarda, sorriso da vecchia volpe televisiva. Lei annuisce: «Già, nella mia migliore fantasia sessuale, nessuno mi ama per il mio cervello».

Brillante. Ma è un tipo di brillantezza diverso dal primo, che sa di amara verità glitterata. La distanza che assaporiamo tra i due dialoghi e la loro rispettiva destinazione è la stessa che percorriamo quando, dopo aver letto un racconto di Dorothy Parker (calco originario delle tante Nora Ephron a seguire), passiamo a leggere l’intervista da lei rilasciata alla «Paris Review», inclusa in un volume di recente pubblicazione, il quinto di un’imperdibile serie che raccoglie tutte le interviste e i contributi di grandi autori e autrici del Novecento apparsi sulle pagine della prestigiosa rivista. In queste interviste scrittrici ormai consacrate, anche se intercettate in momenti diversi della loro parabola creativa, ci regalano una sorta di backstage della loro opera, un piano di se stesse reso sì attraverso lo stile e i temi che le hanno rese famose, ma di un mezzotono più basso, pacato. Prudente, forse. Il passo con cui ci si accosta alla verità, quando questa ci riguarda in prima persona.

È quella gran spiritosona della Parker che all’annuncio della morte del presidente Calvin Coolidge, noto per la sua impassibilità, commenta: «Come fanno a esserne certi?». E giù risate. Ma è sempre la Parker a percepire quelle risate come un marchio: «Una cosa insopportabile, che cominciassero a ridere prima ancora che aprissi bocca». L’infanzia in collegio, a quanto pare, non è stata delle più felici, e lei lo rivela da par suo – «se parliamo di quanto il collegio mi abbia aiutato ad affrontare il mondo esterno, devo dire che la sola cosa che ho imparato è che se si sputa sulla gomma da matita si riesce a cancellare l’inchiostro» –, ma di più non dice, né mai la sua scrittura ha tratto ispirazione da quegli anni: «Tutti quegli scrittori che raccontano della loro infanzia! Dio Santo, se io scrivessi della mia, lei non vorrebbe stare nella stessa stanza con me», dichiara all’intervistatrice. Ed eccola, la tonalità dolente che vibra sotto la melodia di superficie. L’impressione è che la scrittrice celebre per la battuta fulminante, per la brillantezza dei suoi articoli e racconti, considerasse la vita una faccenda troppo seria per riservare alla scrittura il meglio di sé: «Il senso dello humour mordace contiene una verità, mentre chi dice spiritosaggini, per quanto salaci, fa ginnastica ritmica con le parole». O forse, con la penna, è arrivata dove poteva arrivare: più avanti di tanti, indietro rispetto a molti, che lei ammirava. «Penso che nessuno al mondo scribacchi tanto per fare. Gli scrittori di Hollywood, per quanto possano rivelarsi spazzatura, non scribacchiano. Meglio di così non sanno fare. Se quello che vuoi fare è scrivere non devi fingere che tu stia soltanto prendendo un paio di appunti a caso. Avrai scritto la cosa migliore di cui sei capace: a tagliarti le gambe è proprio il fatto che quello sia il massimo che sai fare. Vorrei saper scrivere bene, ma so che non è così, so di non essere stata capace. Per tutta la vita, fino alla fine dei miei giorni, però, avrò grande ammirazione per chi invece ci è riuscito».

Avete mai letto niente di più aggraziato e spietatamente sincero su se stessi e su ciò che più sta a cuore?

Se sì, non era certo uno scrittore. A meno che la «Paris Review» non avesse deciso di intervistarlo.

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