Qualcuno ha detto che da grandi tutto annoia, tranne le cose che abbiamo visto, letto o fatto da bambini. Le cose che abbiamo visto, letto o fatto da bambini sono appunto cose da bambini, se siamo stati abbastanza fortunati da aver vissuto un'infanzia qualsiasi.

Sono cose perciò piuttosto elementari ma rivestite di un portato mitopoietico che nemmeno un bravo analista potrebbe ridimensionare. Ecco l'estate elementare, l'estate delle elementari. Perché, non è forse vero che l'estate per gli adulti è la stagione della noia? Solo i bambini si divertono, d'estate. E i grandi che sanno tornare bambini, tanto per cambiare. Davanti al Macaulay Culkin di My Girl, io torno bambino. Intendiamoci subito, la bellezza con il film non c'entra niente. Non lo si guarda perché è bello, tutt'altro. Lo si guarda semmai per il particolare spiato dal buco della serratura, o meglio per l'insieme di particolari.

My Girl è un film di particolari. Non è un caso che al netto di un seguito se possibile ancor più casto e liofilizzato (My Girl 2, patetico tentativo di bissare un titolo di rara bruttezza), il regista non abbia mai più toccato la macchina da presa. Un film obbrobrioso, mascherato da fiaba del primo amore tra undicenni divisi dalla linea d'ombra di una morte prematura. C'è una piccola protagonista, duttile come il suo nome di battesimo, Vera. C'è la figura opprimente della madre morta e la figura materna della nonna vivente, c'è un Dan Akroyd sfinito dall'osservanza del lutto, mai così insignificante nel ruolo del vedovo plastificato con la riga da un lato. C'è una Jamie Lee Curtis portata all'esasperazione dall'ennesimo ruolo di riesumatrice di morti viventi, insolitamente castigata nella sua mise mormona che dovrebbe riattivare chissà come il pianeta sessuale del fu ghostbuster, ora truccatore di cadaveri. C'è appunto il bambino trapassato precocemente a causa di uno sciame d'api che gli mangia financo gli occhiali da vista – ed era addirittura allergico (quando a un certo punto lo rivela, lo spettatore capisce che il piccoletto ha fissato il suo appuntamento al palo della morte, e così sarà, allo scoccare del sessantesimo minuto dai titoli di testa).

 

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 E c'è l'estate, fuori e dentro il film. L'estate è la stagione giusta per raccontarci ancora e ancora la stessa storia di fantasmi al sole, in una deplorevole scala al contrario che dal 1991 ripropone questa pellicola gluten free passando dalle ammiraglie delle TV private via via sempre più giù fino all'asfissiante ciarpame cotonato dei Bellissimi di Rete4, alias Teleroma 56 dei nonni digitalizzati. Tradotto in Italia con il più confortante, almeno per il botteghino, Papà ho trovato un amico, il film è un polpettone micidiale che tracima buoni sentimenti e vere e proprie sequenze da pornografia del dolore. Io non so resistere. Il patto di sangue tra i due piccoli protagonisti, sul pontile sconocchiato all'ombra di un salice piangente che li ripara dai quaranta gradi, novantotto percento di umidità, di un agosto da provincia americana è il particolare che mi manda in solluchero.

Vera è bellissima ma si percepisce come un cesso per effetto dei suoi undici anni. Chi ci crederebbe mai? Un bambino di undici anni, appunto. Tanti ne avevo quando l'ho vista al cinema per la prima volta, quando l'ho desiderata nella sua salopette da lavoro, lei che aveva la mia stessa età ma già baciava, già amava sotto quel salice che nascondeva entrambi dalle cascate di ovvietà di questo prodotto medio americano, generato per molti ma non per tutti.

Creato in laboratorio per una generazione che di lì a poco avrebbe acquistato all'incirca un milione e mezzo di copie di Mellon Collie And The Infinite Sadness, l'album che ci avrebbe traghettato dalla  prepubertà alla postadolescenza. Nell'arco di un anno e di una vita c'è soltanto un momento deputato alla visione di questo giocattolino in sedici noni: l'estate. Quella di oggi e quella dei miei undici anni, quando il godimento maggiore era tutto lì, negli attimi che precedevano l'apparizione della parola fine sullo schermo e che decretavano l'inizio di un pomeriggio ancora tutto da vivere. Le ore più calde erano passate, si poteva scendere in cortile a prendere le biciclette e ad aspettare Vera sul pontile.