Nugent Miller, pacifico professore di storia antica al Laurelville College del Tennessee, «alto, magro, con un’espressione di tristezza sul volto bruciato dal sole», gli occhiali in montatura d’osso rattoppati con lo spago, è l’unico maschio (pare) scampato al bombardamento nucleare che ha annientato gli Stati Uniti.

All’inizio del racconto di Robert Sheckley Nugent Miller e le ragazze (The girls and Nugent Miller, 1962) lo vediamo aggirarsi tra i boschi con un contatore geiger nella mano: sta seguendo delle tracce. Nugent Miller, ogni volta che leggo questo racconto, ha la faccia di Philip Roth. Il mondo attorno a lui è scomparso, nel senso che la biosfera sembra evaporata, è un deserto di realtà nel quale la faccenda più pericolosa, al momento, è coltivare la folle speranza di incontrare altri esseri umani. Per questo, negli ultimi mesi, il professor Nugent Miller è diventato estremamente cauto. Non vuole sperare, sa che dietro l’angolo di un’ultima illusione infranta c’è appostata la pazzia. Pertanto, cautamente avanza nel bosco controllando le radiazioni. Sei mesi prima ha incontrato sul suo cammino il cadavere di un uomo armato fino ai denti. Nugent Miller è un serio pacifista: colto, sofisticato, amante dei libri. Ha sepolto l’uomo e gettato le armi nel fiume – nel suo solitario universo post-atomico lui preferisce raccogliere quadri e opere d’arte, con un minimo di senso di colpa.

Apprendiamo da Sheckely la storia della sua salvezza: subito dopo un’improvvisa guerra in Kuwait (profetico Sheckley) e poco prima del bombardamento nemico (la Cina, chi altri?), il nostro professore si è rifugiato in una profonda caverna del Tennessee insieme a una cinquantina di persone. Dopo qualche settimana la gran parte dei rifugiati è morta di fame e stenti. A questo punto alcuni disperati e/o incoscienti hanno tentato la sortita all’esterno, consegnandosi all’inferno radioattivo. Miller e altri tre uomini hanno deciso di esplorare la caverna più a fondo, in cerca di cibo. Due di loro sono rimasti uccisi da una frana. Miller e l’ultimo compagno, alla fine di questa faticosa catabasi, hanno trovato un ruscello di acqua nera in cui brillavano dei punti luminosi. Pesci, spiega il racconto: «pesci ciechi che vivevano tutta la loro vita nelle caverne. Pescarono e non presero nulla. Passarono parecchi giorni prima che Miller riuscisse a ostruire una ramificazione del ruscello, a intrappolare parecchi pesci e a tirarli a riva. Ma ormai il suo amico era morto».

Qualcuno scava, azzarda nel ventre tellurico. E non basta arrivare a destinazione, devi anche ingegnarti, spremere le meningi, promuovere la finalità attraverso un ordine. Chi è più ostinato sopravvive. Ma torniamo nel bosco, dove Nugent Miller, dopo mesi di ricerche infruttuose, ha appena trovato cinque diverse impronte (piedi piccoli, femminili) che riaccendono in lui i demoni dell’aspettativa. Povero Miller: «sopravvissuto alla morte dei più adatti […] dopo la tragica distruzione del mondo, credeva ancora nelle sue nobili decisioni […] un uomo che le circostanze avevano costretto a reprimere il desiderio e ad abbandonare la speranza». La bussola di Miller, in parte metaforica, è quel contatore geiger che sembra guidarlo come un sesto senso artificiale. A un certo punto il professore gira attorno a un macigno e si trova di fronte a cinque persone. «Ai suoi occhi affamati apparvero come una folla, un esercito, una moltitudine. Erano accampate attorno a un piccolo fuoco. Gli occorsero parecchi secondi per assimilare quella realtà». Sheckley ci descrive vagamente questo drappello di sole donne – calzoni laceri, giacche di cotone – e subito rassegna i loro sacchi da montagna, le «rozze lance» poggiate contro i sacchi.

Già possiamo intuire quello che Miller presto imparerà a sue spese. La flottiglia di ragazze, quattro ventenni, è guidata da una donna sui cinquanta, la signorina Denis, «bassa, robusta, solida, con il viso quadrato e i capelli grigioferro, le braccia muscolose e il collo bruno e tozzo», insegnante di etichetta alla Charleton-Vaness School per signorine. Una collega, pensa ironicamente Miller – e noi stiamo già tremando per lui. L’arcigna signorina Denis riassume la storia recente del suo gruppo, le disavventure, le prove tremende: quel gruppo che la psiche di Miller già visualizza come un gineceo da cui avviare la ripopolazione del pianeta. E poi, proprio mentre la Denis sta raccontando come siano sopravvissute nelle fogne, una delle ragazze aggiunge: «E abbiamo mangiato i ratti». Questa ragazza si chiama Suzie. Miller nel frattempo si è «innamorato di tutte, contemporaneamente e sinceramente, in particolare di Suzie, perché aveva un nome». D’ora in poi, ogni volta che Miller la nominerà, lo farà in un a-parte avverbiale consacrato solo a lei: «specialmente Suzie».

Entriamo nella tipica atmosfera alla Sheckley, tra quelle distorsioni paradossali che sono l’anima della sua narrativa. Il professor Miller avanza timidamente l’ipotesi di organizzarsi insieme per la sopravvivenza. La Denis oppone un secco rifiuto. Miller le sottopone argomenti ragionevoli. Lei si lancia in un apologo – a beneficio delle ragazze – sulla corruzione dei maschi, che non fa tanto ridere per le posizioni ultrafemministe, quanto per il fatto che quel discorso fuori di testa rappresenta la raggiunta perdita dei freni inibitori. Scopriamo che la Denis, dopo il disastro atomico, è radicalizzata, inselvatichita nella teoresi: «Ma, quando i tempi erano normali, io non potevo spiegare completamente le mie teorie. La scuola non me lo avrebbe permesso […] adesso non siamo più in tempi normali. Voi uomini avete rovinato tutto, una volta per sempre, e non avrete la possibilità di ricominciare finché io potrò fare qualcosa per impedirlo». Miller, il civile Miller, è disorientato. Prova a difendersi: «Durante la seconda guerra mondiale facevo parte dell’equipaggio di un’ambulanza. Non ho mai stroncato una vita umana e non ho intenzione di farlo, mai». «Quindi lei è non soltanto un uomo, ma un codardo» risponde la Denis. Miller, ancora civilissimo e pacato, ma senz’altro scosso dal grottesco che in questa donna sta per prendere una direzione pericolosa, prova a rovesciare i termini del dibattito: «Mi dica, lei che cosa ha fatto per impedire le guerre che odia tanto?», e la signorina Denis risponde: «E che può fare una donna? I prigionieri devono seguire i conquistatori». È a questo punto che Nugent Miller – ogni volta – diventa irresistibilmente Philip Roth: «Sciocchezze. C’erano abbastanza donne per riuscire se avessero voluto veramente impedire le guerre. Ha mai letto Lisistrata? Aristofane ci insegna che le donne antiche rifiutarono di coabitare coi mariti fino a che non avessero smesso di combattere».

E niente, quando vedo Miller chiedere alla Denis se abbia letto Lisistrata non riesco a smettere di sogghignare: per lei, per luisono le bordate micidiali dell’intertestualità. In ogni caso, il nostro professore di storia antica non demorde. Dopotutto è uno che ha setacciato pesci fosforescenti dentro una pozza nerastra in fondo al più torbido dei budelli. Sempre apparentemente placido e padrone di sé oppone certe comprensibili ragioni operative: «Vi sarà difficile riprodurvi». La signorina Denis – con uno stacco decisamente tremendo per una compita insegnante di etichetta della Charleton-Vaness School, ma non troppo per la belva repressa che freme dentro quello stesso guscio – inizia a delirare di partenogenesi e laboratori di ricerca dove scovare le attrezzature necessarie. Miller abbozza un ultimo pacifico tentativo per riportarla alla ragione. Verosimilmente irritata da ragionamenti troppo fronzuti per i suoi gusti, la signorina Denis ordina alle ragazze di lapidarlo. «Una scarica di sassi volò nell’aria. Miller si girò per proteggere il contatore geiger e sentì i sassi che lo colpivano al dorso e alle gambe. Non riusciva a credere che fosse vero. Le ragazze che lui amava – specialmente Suzie – non potevano lapidarlo». Da uomo morale qual è, Miller è convinto che le ragazze proveranno vergogna e la smetteranno di prenderlo a sassate. Invece la Denis, «forte e massiccia come un toro», si avventa su di lui con la lancia. Segue una lotta furibonda in cui Miller, che sembra tenere al contatore geiger come alla sua stessa vita, naturalmente ha la peggio, e mentre la Denis incita le ragazze all’assassinio del «lurido uomo» lui riesce a fuggire.

Nella scena seguente Miller è alle prese con se stesso. Immaginare l’uomo come una specie estinta. «Con orrore, Miller si accorse che riusciva a immaginarselo benissimo». Insieme a Nugent Miller siamo spinti dentro un ragionamento sulle circostanze eccezionali e sulle conseguenze impreviste, sul futuro della specie e la surreale dialettica tra i sessi, sulla violenza e la cultura, sulla guerra, sull’America e il destino della civiltà. Miller è davvero un Philip Roth che ha visto compiersi l’apocalisse. Il Roth reale – il romanziere, non questo personaggio scaraventato in un racconto che non è nemmeno suo – si è fermato dove può arrivare la scrittura: al buio torrente sotterraneo dei pesci luminosi. La soglia di senso oltre la quale il linguaggio ridiventa un balbettio ferino. Lo sappiamo: alla scrittura Roth ha dato tutto, ed è stato ripagato come nessun altro scrittore – fino a ieri – vivente.

E il professor Miller? Lo abbiamo lasciato, ferito e meditabondo, nella penombra della foresta. «Guardò il coltello a serramanico che stringeva in pugno e rabbrividì sotto il peso dei demoni appollaiati sulla sua spalla». I racconti di Sheckley ce l’hanno questo ritmo cardiaco, come un tracciato sinusoidale, apertura e chiusura dello spazio distopico: «Un attimo dopo, l’ultimo uomo civile del mondo era morto. Con lui morirono l’ultimo pacifista e l’ultimo obiettore di coscienza, l’ultimo collezionista d’opere d’arte e l’ultimo bibliofilo. E al posto di quelle creature ammirevoli c’era Miller, che stringeva in pugno il coltello e si guardava attorno nella foresta, cercando qualcosa». Siamo alla fine: vediamo che il racconto punta esattamente là dove ci aveva fatto prevedere. L’istante della regressione allo stato animalesco separa uno scrittore traboccante di talento come Sheckley da un genio della complessità come Roth. I paradossi beffardi di Sheckley discendono dal posizionamento dell’umano nel tragico. Roth, al contrario, insegue il tragico nell’umano. L’umano quanto panorama del tragico. È il suo modo, da scrittore, di andare a caccia di guai. Non a caso la pagina di Roth gronda di desiderio, quella di Sheckley punta soprattutto a esaurirlo. Dunque Miller si arrende. Raccoglie un grosso ramo e col coltello ne fa una lancia: «Fra poco la signorina Denis si sarebbe vista piombare addosso l’aborrita sintesi di tutti i maschi villosi, puzzolenti, sudici e violenti. Si augurò che avesse il tempo di capire che era stata lei stessa a evocare quella belva. Sarebbe stata una grossa sorpresa per lei. E, dopo, anche le ragazze avrebbero avuto una sorpresa. Specialmente Suzie».