C’è questa idea che la letteratura abbia a che fare con una certa dose di verosimiglianza. Una cosa di cui è convinto anche Eric Auerbach in Mimesis, probabilmente il piu bel saggio di filologia applicata alla critica letteraria. In sintesi, l’idea è che una storia, per essere una buona storia, deve imperniarsi su una miriade di dettagli.

Uno che lo ha fatto da dio era Richard Brautigan, due anni prima di tirarsi un colpo in testa con un fucile calibro 22. Richard Brautigan sì, quello della Pesca alla trota in America. Nel 1982 scrive American Dust, la storia di un ragazzino che sbaglia mira e invece di sparare ad una mela marcia spara all’amico finendo per ucciderlo.

Ripubblicato di recente da Minimum Fax, nella traduzione di Luca Briasco:

«Vorrei tanto che la pallottola fosse nella sua scatola, insieme ai suoi quarantanove fratelli e sorelle, che la scatola se ne stesse al sicuro sulla mensola dell’armeria e che io fossi davanti al negozio, in quel piovoso pomeriggio di febbraio, senza entrare.
Vorrei tanto aver avuto voglia di un hamburger, anziché di munizioni. C’era un ristorante, proprio accanto all’armeria. Facevano degli ottimi hamburger, ma io non avevo fame.»

Ecco, hamburger al posto di pallottole. Non è tanto che i dettagli creino la cornice. Non è tanto che “vedi la scena”. Per quello esiste il cinema, e ad essere franchi non lo batti su quel territorio lì. È qualcos’altro.
C’è un’altra scena in cui il ragazzino si fa coraggio e va a parlare con un vecchio che ne sta sempre fermo su un pontile. La dinamica è quella di Scoprendo Forrester: Jamal Wallace che gioca a basket, Sean Connery che ne sta su casa all’ultimo piano e che li spia dalla finestra e gli amici che lo sfidano ad andare da lui. Quello. Beh il ragazzino ci va e attraversa il pontile. Camminare su quel pontile non era esattamente la cosa piu facile del mondo per lui. Per giunta il pontile, quel tipo se l’era costruito da solo. Ed ecco come lo descrive Brautigan:

«il pontile era una vera bellezza. Era stato costruito alla perfezione, come un clavicembalo, ed era lucido come un vassoio d’argento. Era lungo tre metri circa, e largo uno. I pali erano altrettanti blocchi di legno, finemente intagliati. […]
Il ponte vero e proprio era formato da tre tavole, di trenta centimetri di larghezza e cinque o sei di spessore. Anche le tavole erano state intagliate a mano, lucidate con tanta cura che avrebbero potuto mangiarci un re. Sarebbe stato interessante vedere un re che mangiava direttamente da un pontile.»

Ecco, è chiaro che i dettagli non stiano qui per farti vedere la scena. O non soltanto almeno. Il punto è che l’uso dei dettagli ha proprio un altro obiettivo. Prendiamo un altro racconto, della piu grande scrittrice di racconti vivente: Alice Munro. Il racconto si chiama Le lune di Giove. Questa è la prima riga:

Trovai mio padre in cardiologia, all’ottavo piano del Toronto General Hospital

Un incipit perfetto. Di una pulizia inarrivabile. Una sorta di file zippato che un altro scrittore, uno semplicemente meno bravo, avrebbe speso in un paragrafo di una decina di righe. Perché scrivere trovai significa informarmi sul fatto che c’è un uomo o una donna che si sta precipitando in una sala. E scegliere di dire cardiologia, alza il livello di tensione. In sintesi da una riga sappiamo già tutto: c’è un figlio/a che trova il padre in ospedale con una malattia grave a Toronto.
Poi prosegue:

Era in una stanza doppia. L’altro letto era vuoto. Disse che la sua assicurazione sanitaria copriva soltanto un posto letto in corsia, e temeva che gli addebitassero un supplemento.

 

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E poi questa è la demi-voleé sottorete. Qui capisce la differenza tra un fuoriclasse e uno che può essere anche banalmente un ottimo giocatore. La prima cosa che chiunque avrebbe scritto, la prima cosa che chiunque avrebbe registrato, cinepresa in spalla è: la condizione del padre. Cosa dice invece Alice Munro? Era in una stanza doppia. L’altro letto era vuoto. Un dettaglio soltanto apparentemente marginale. Perché con era in una stanza doppia Alice Munro ci sta dicendo che lui è solo in quella stanza. E oltretutto se c’è un letto vuoto in una sala di cardiologia la connessione da fare è una soltanto, con la morte.

Ecco, questo uso del dettaglio è la letteratura. Non si tratta soltanto di cornice e di verosimiglianza. Rimane di certo vero quel che ha scritto Luigi Ghirri nelle sue Lezioni di Fotografia. Cioè il fatto che noi viviamo nel mondo senza cornice e che il compito dell’artista, nel suo caso il fotografo, consiste nel capire dove metterla, quindi cosa lasciare fuori e cosa far entrare. Questo, per inciso, vale ancor di più oggi che l’occhio di qualsiasi camera di qualsiasi smartphone riprende indistintamente qualsiasi scena, senza più alcun principio di esclusione/inclusione.

Ma nel caso di Brautigan e della Munro c’è qualcosa di più. È una questione di classifica? Un po’, non ci posso far nulla.
Perché gli scarpini di seta di Emma con cui danza al gran ballo alla Vaubyessard? Perché la borsetta rossa nella quale Anna Karenina si impiglia nel primo tentativo, fallito, di buttarsi sotto il treno? Perché il drink bevuto dalla bocca dell’altro nel Giardino dell’Eden di Hemingway?
In parte perché abbiamo un innato godimento per la specificità. Il contraltare, è chiaro, è che questo può diventare molto facilmente manierismo (per chi scrive) e feticismo (per chi legge). Cioè la maggior parte dei casi. Ma quel che distingue un dettaglio da un altro, cioè il vero dettaglio, il dettaglio puro, è che uno ha a che fare con il tentativo di descrivere l’insondabile, l’altro no.

Si tratta di descrivere quello che, utilizzando un lessico caro alla filosofia tedesca, potremmo chiamare das Wesentliche, l’essenziale. Cioè quello che Theodor Adorno avrebbe chiamato das Mehr – letteralmente «il di più» ma che si potrebbe tradurre paradossalmente andando in sottrazione con «il resto». Il resto da cosa? Proprio dal visibile, cioè dalla cornice, quindi dal quadro/foto.

Perché l’hamburger di Brautigan e la stanza doppia della Munro non valgono né per un hamburger né per una stanza doppia. Perché la borsetta di Anna non è soltanto una borsetta e il drink di Hemingway non è soltanto un drink. Perché il drink, la borsetta e l’hamburger sono il mistero scritto nelle tigri di Borges. Sono il codice, la formula di 14 parole, il DNA della realtà. Lo puoi vedere soltanto per un attimo, poi retrocede e scompare.
Un filosofo ci avrebbe costruito un sistema di pensiero. Brautigan ti parla dell’hamburger.


Matteo Sarlo
ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È fondatore della rivista online di cultura pop Globus (www.globusmag.it)