C’è poi un certo modo di scrivere che ti fa dimenticare che quella roba è stata (anche, almeno in parte) lo sforzo di un operaio. Come se nascesse tutto già così, esattamente come lo stai leggendo. Accade con Alice Munro, per esempio. Smontare uno qualsiasi dei suoi racconti ti costerà molta, ma molta fatica. Perché è proprio una questione di necessità: ogni frase sta lì, al punto giusto.

 Certe volte accade con delle storie. Ed è il caso di due che sono entrati nella short list dell’ultimo Man Booker Prize: 4321 di Paul Auster e il vincitore, Lincoln nel Bardo di George Saunders. Due libri molto diversi, eppure così vicini. Entrambi hanno tentato, riuscendo, di forzare, spingere i limiti, proporsi in quanto avanguardia. Saunders lo fa sottraendo forma, Auster amplificandola.
Vediamo.


Lincoln nel Bardo

Sarà meglio dirlo subito, in Lincoln nel Bardo non c’è Shakespeare. I celtici, i cantori, la poesia in musica, niente. Già, perché il Bardo del titolo è il nome che i buddisti tibetani danno a quel luogo tra il post mortem e il prima della reincarnazione. Detto in termini temporali, il Bardo sarebbe allora quel preciso spazio definibile con la nota formula hegeliana del già-non ancora. Cioè non più in vita ma non ancora trapassati. Qui si trova Willie, il figlio di Abramo Lincoln morto a undici anni dopo una grave malattia che lo costringe a letto nella Prince of Wales, la stanza con gli arazzi viola e le nappe dorate, durante un grande ricevimento organizzato da papà e mamma Lincoln nel 1862.
Oak Hill, il cimitero di GeorgeTown, è quella la destinazione di Will. Qui sosterà, in compagnia di altri non-morti che affollano un enorme spazio perimetrato da un’invalicabile inferriata.
Queste sono le prime parole che Will pronuncia:

Presto sarà primavera I balocchi di Natale quasi come nuovi Ho un soldatino di vetro con la testa girevole Le spalle intercambiabili Presto sbocceranno i fiori Lawrence il giardiniere ci darà una tazzina di semi ciascuno
Devo aspettare dissi

La posizione scelta da Saunders è allora strategica perché: 1) apre lo spazio verticale dell’attesa; 2) colloca il suo personaggio in un punto preciso dello spazio-tempo (definito tra l’altro nel giro di una notte), cioè quel luogo che in tedesco si esprimerebbe con l’avverbio anderswo, la trascendenza rispetto al terreno.

È allora un doppio miracolo quello compiuto da Saunders: materializzare in personaggi che sfiorano la parodia una trascendenza anfibia, schiacciata sulle voci delle anime che accolgono Will nella nuova dimensione – c’è Rober Bevinis III, un tipo con «diverse paia di occhi che guizzavano da tutte le parti… occhi come grappoli d’uva», e c’è Hans Vollman, un uomo tutto nudo con «un membro grosso come un… e il naso schiacciato come quello di una pecora», soltanto per dirne alcuni; poi scrivere tutti i dialoghi in presa diretta come si trattasse di una sceneggiatura teatrale – nome due punti e battuta – intervallandoli con reportage di cronisti e biografi del tempo.
È certo: quel che ne esce fuori è qualcosa che non è mai esistito prima, qualcosa di simile a un libro preparatorio alla scrittura un libro. Hai le carte, i documenti, hai i dialoghi che ti sei immaginato, hai i personaggi, ma invece di fondere ogni cosa in un’unica storia lasci tutto aperto e dispiegato.

 

4321
D’accordo non è stato il primo a farlo. C’è almeno E non è subito sera di Jenny Erpenbeck, quello prima di Voci del verbo andare (premio Strega Europeo 2017). Ma nessuno l’aveva fatto così. L’idea è costruire una narrazione assorbendo le ultime acquisizioni della fisica teorica e della filosofia del sé, o almeno, è chiaro, la percezione di queste acquisizioni. Più o meno: unisci la teoria delle Stringhe con la logica hegeliana, scrivici un romanzo, e quello che otterrai è 4321 di Paul Auster. L’idea base è che un individuo si configura come atto speso e, allo stesso tempo, come tutto il carico di possibile latente non consumato. In una formula: io = (+io) +(-io). Perché ogni momento è occasione di una scelta, che sia consapevole o no. Perché ogni minuto è una Sliding door (impossibile non ricordare Gwyneth Paltrow che prende la metropolitana/Gwyneth Paltrow che non prende la metropolitana) che ti porta altrove.
Auster racconta la storia di Archie Ferguson, figlio di ebrei trapiantati in America, e lo fa seguendo lo stilema più classico del romanzo americano, quello irriso da Holden Caufield (se volete che vi racconti della mia famiglia e di tutta quella roba là scordatevelo). Sceglie di partire non da una, ma da due generazioni precedenti e da una simpatica storiella: il nonno di Ferguson che si incammina da Misk per arrivare ad Amburgo, comprare un biglietto per la Empress of China e salpare per New York nel 1900. Mentre aspetta di essere interrogato da un funzionario dell’immigrazione incontra un altro ebreo russo che gli consiglia di cambiare il nome da Reznikoff a Rockefeller. Ma quando, dopo ore e ore di attesa, gli tocca rispondere alle domande del funzionario, se ne esce con un yiddish «ich hob fargessen» molto vicino al tedesco «Ich habe vergessen», cioè ‘l’ho dimenticato’: «[…] e fu così che Isaac Reznikoff cominciò la sua nuova vita in America come Ichabod Ferguson».
Il primo capitolo è così dedicato alla genealogia, dal nonno all’incontro tra i genitori Rose e Stanley.
E Auster ci mette pure un altro amore passato di mezzo, l’ex fidanzato di Rose, morto durante un’esercitazione militare (la banalità di un’esplosione accidentale!) a Fort Beginning, in Georgia:

No non si sarebbe mai ripresa dalla morte di David, lui sarebbe sempre stato il fantasma segreto che le camminava accanto mentre lei s’imbatteva nel futuro, ma ventun anni erano troppo pochi per voltare le spalle al mondo e capì che, se non si fosse sforzata di rientrare in quel mondo sarebbe morta di disperazione.

Certo, il contraltare è che dopo trenta pagine che stai con Rose e Stanley, di sapere di Ferguson quasi non te ne frega più niente. Ma cambi idea presto, anche perché questo romanzo, questo romanzo Auster l’ha scritto da dio. Ottocentosessantasei pagine (nell’edizione originale della Faber & Faber) di scrittura che rimanda alla densità di Pastorale Americana di Roth. Un linguaggio zenoniano, che tagliuzza la realtà, pezzetto per pezzetto, dividendola in parti sempre più minute.
Il presupposto è chiaro: se scavi nella realtà, concedendo tempo a ogni gesto, trovi quel che sta sotto alla realtà. E questo è di certo un recupero pre-scuola fenomenologica.
Ma è altrettanto certo l’intreccio fa sua quell’idea, tutta moderna, di una realtà che è continuamente un’altalena tra l’evento e il possibile. Auster li tiene insieme. E costruisce una storia dentro una storia dentro una storia dentro una storia. È uno sforzo mostruoso, e ci ha messo sette anni. Il risultato è il capolavoro che, probabilmente, era fin qui mancato alla pur brillante carriera di Auster. Un po’ quel che è stato Underworld per De Lillo o Rubbit, run per Updike.



60s Dance Party

 

Auster e Saunders hanno scritto due romanzi in cui forzano i limiti della narrazione. L’uno attraverso la destrutturazione della forma romanzo, l’altro amplificandola a dismisura e costruendo più romanzi incapsulati l’uno nell’altro.
Ma non è soltanto un fatto di voler rompere schemi. È che quando scrivi un capolavoro finisce sempre che, in parte, metti in questione quel che c’è stato prima.
Perché la letteratura, quando è alta letteratura, è sempre domanda su se stessa. Perché la letteratura, quando è alta letteratura, è sempre (anche) avanguardia.

 

Matteo Sarlo ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana. Ha pubblicato Passaggi sul vuoto (Galaad), un saggio sul concetto di «vuoto» in filosofia. È fondatore della rivista online di cultura pop Globus (www.globusmag.it)