1. Scrivere un giallo significa muoversi dentro la gabbia del genere, riuscendo di volta in volta a non tradirla eppure a evadere in qualche modo. È un piccolo paradosso, la sfida che si pone è quella di un’originalità bilanciata: l’esigenza di confrontarsi con schemi più o meno fissi e con le attese di un pubblico che non vuol rinunciare a certi elementi e, allo stesso tempo, dover trovare di volta in volta un carattere, un intreccio e atmosfere che non siano semplici ricalchi. Come affronti la suddetta sfida?

È vero, la gabbia di un seriale è ancora più asfissiante, perché lo schema fisso – rottura della quiete/ dentro l’avventura/ ritorno con l’elisir (che in un seriale è la vittoria del protagonista) – è per certi aspetti noto al lettore (il quale sa in partenza che non morirà Montalbano, Ricciardi, Pepe Carvalho, Marlowe o Vivacqua). Resta la necessità di un meccanismo sorprendente. Io mi sforzo di lavorare come un enigmista: la struttura è quasi tutto, per me; invento un meccanismo, un intreccio in funzione del gioco con il lettore. E se, alla fine della storia, il mio commissario ha risolto il caso prima del lettore stesso, so di averlo divertito. È questo il premio. Comunque la risposta è: non lo so, ogni volta è diverso. Inventare, nel mio caso, non ha percorsi fissi.

 

     2. Com’è stato scrivere il primo libro rispetto alla stesura del secondo, con un esordio fortunato alle spalle, accolto nella scuderia di un editore importante? Il dato psicologico di una scadenza da rispettare e di aspettative nuove possono cambiare i meccanismi della creatività e della costruzione di una trama?

Accidenti, sì. Cambia tutto. Le molliche del commissario, il mio primo romanzo, pubblicato da Giunti, è un giallo complesso alla maniera di Agatha Christie: tre plot, parecchi personaggi da muovere e gestire che scappano da tutte le parti. Ma alla fine, con grande divertimento, mi è riuscito di tenere tutto insieme. Per Il paradosso di Napoleone ho voluto concentrarmi su una costruzione più semplice, ma anche più solida e lineare in ogni aspetto: ambientazione, dialoghi, trama, suspense. Ma quando scrivi per un grande editore, un orso sulla schiena ti dice di continuo: «Sbrigati; quella frase fa schifo; così è banale/complicato; adesso tutti si domanderanno: “E tu vorresti fare lo scrittore?!”, e a pagina 10 frulleranno il libro nel gabinetto...». Insomma le aspettative esterne pesano, ma non quanto quelle che tu stesso poni sulla tastiera. A volte è la voglia di strafare a rovinare tutto. Comunque sì, non mi piace ammetterlo, ma scrivere per un grande editore una certa ansia da prestazione la provoca.

    
      3. Il commissario Vivacqua è un tipico commissario da “giallo all’Italiana”, che abbina acume a pietas, e una marea di piccoli umanissimi difetti a un grande pregio di fondo: un’onestà istintiva, un equilibrio morale precedente il senso del dovere. Dopo la maschera di Montalbano, che questi commissari pare fagocitarli un po’ tutti, è stato difficile immaginare un personaggio come Vivacqua evitando il rischio di inciampare, senza volerlo, su modelli già esistenti?

Non è stato tanto difficile uscire dalla scia di Camilleri o altri autori importanti... In realtà non mi sono nemmeno posto il problema. Ho cercato fin dall’inizio di trovare una “voce” in cui riconoscermi insieme a una storia divertente da raccontare. Insisto sull’aggettivo “divertente”: per qualcuno potrebbe risultare sminuente, ma per me divertire, vale a dire distrarre, intrattenere, è il senso della narrativa di genere.

    

     4. La Sicilia, Napoli, Firenze, l’immaginaria Pineta in Maremma, Bologna, il Nordest, Roma... la geografia giallistica nostrana è assai ben connotata: ogni città, si direbbe ogni “parlata”, ha il suo commissario o investigatore dilettante di riferimento. Torino, dai tempi di Fruttero e Lucentini, non manca certo all’appello. Dal tuo punto di vista che spunti offre questa città, per certi versi distaccata, sostanzialmente fuori dalla grancassa delle cronache quotidiane – non è la Milano dei quartieri fashion e dell’immigrazione, non è la Roma dello sterminato sottobosco criminale colluso con il Palazzo, non è la provincia piccola e brulicante di vizi, non è la Sicilia cartolinesca e mafiosa, né la Napoli dei vicoli vocianti – alle trame di un giallista di mestiere?

Bella domanda. Potrei rispondere in mille modi... La verità è che non “uso” Torino come una cartolina: è semplicemente l’ambiente che conosco meglio e al quale sono più legato. Cerco di non incagliarmi sulle cose più note (la magia, le fabbriche, l’immigrazione) e allo stesso tempo non le evito del tutto. So che sembra una contraddizione, ma non lo è: come qualunque scrittore, mi muovo tra le pareti di casa senza “vendere” un luogo che meriterebbe di più e che molti non conoscono. Resta il fatto che ognuno con le proprie lenti vede cose diverse e per fortuna nascono immagini sempre nuove.

    

     5. Perché l’idea di dare un background meridionale così colorito al tuo Vivacqua? Proprio tu, uomo della più autentica provincia torinese? “Calcolo editoriale”, forse?

Volevo un personaggio che non fosse il solito poliziotto depresso, ubriaco, triste, separato, con più rimorsi che soddisfazioni. Lo volevo ironico, salace, capace di andare un po’ per i fatti suoi, con quel pizzico di allegra anarchia che caratterizza le persone un po’ speciali senza essere superuomini. Lo volevo padre di famiglia, un tipo responsabile, che non mi somigliasse troppo e con il quale, però, ci si potesse identificare, se non altro perché si circonda di persone (e di un cane) che al momento giusto strappano un sorriso. Cosa c’è di meglio di un uomo del Sud a Torino?

    carlo f. de filippis

    
     6.
Una cosa che si nota, nelle tue storie, è che all’interno di una tela da tipico giallo all’italiana – così nei caratteri del protagonista, nel suo modo di interagire con i sottoposti e i superiori, nel suo sguardo verso il mondo, vittime e colpevoli, nei siparietti di alleggerimento che si aprono di tanto in tanto sulla pagina – s’innerva un impianto propriamente thriller: lo sguardo dell’assassino spesso reso in soggettiva, la violenza mai trattenuta, risparmiata, un’atmosfera dark che nemmeno il vociare siculo di Vivacqua riesce a stemperare... È forse questo “l’effetto-Torino”?

Sì. Anche se, nelle intenzioni, Vivacqua dovrebbe ammorbidire l’atmosfera. A ogni modo non vado matto per le minestrine, per i mezzi sapori: quando penso che la scena lo richieda, non faccio economia di sequenze hard, come si vede proprio nel Paradosso di Napoleone. Preferisco far saltare sulla sedia il lettore, piuttosto che immaginarlo a letto, dopo aver puntato la sveglia, pronto a scivolare nel sonno. Beninteso, non c’è nulla di male se si addormenta leggendo, ma vorrei non fosse a causa mia. Di qualunque cosa si tratti, dunque,” l’effetto Torino” non deve una camomilla.

    

     7. Come approcci l’esercizio della scrittura? Sei un manager, lavori in una dimensione aziendale. Cerchi di seguire una routine fissa o riesci a scrivere dove capita? Te lo chiedo perché non pochi autori con cui ho parlato mi hanno detto di scrivere in treno, nella sala d’attesa del proprio medico, ovunque la giornata regali loro un po’ di tempo, insomma.

Mi piacerebbe che fosse così anche per me. Io però ho bisogno di un posto preciso, la mia casa, di non avere troppe distrazioni intorno – a volte la mia capacità di concentrazione è quella di un pesce rosso –, e che sia notte. Ah, dimenticavo: di un portacenere.

    

     8. I tuoi riferimenti in narrativa sono i grandi autori di genere nordamericani: Joe Lansdale, Don Winslow, James Ellroy, Edward Bunker. I loro personaggi si aggirano in realtà totalmente altre rispetto alle ovattate vie torinesi. Eppure i loro libri sanno trasmettere molto sull’uomo, la colpa, la violenza, la sopraffazione e l’eroismo: i grandi temi cruciali con cui sempre ci si confronta. Se dovessi condensare in poche parole la lezione appresa dai maestri, cosa diresti?

Dico che mi piace come i grandi che hai citato costruiscono il conflitto. Mi piace come sanno nascondere le carte e farle riapparire quando non te lo aspetti. La loro capacità “letteraria” di pennellare l’uomo e le sue miserie, il sacrifico, la condanna o la redenzione. Mi piace il modo in cui il Male emerge nella sua realtà talvolta assolutamente banale. E naturalmente mi piace la straordinaria forza affabulatrice, quell’arte di intrattenere che, appunto, mi sforzo di fare anche un po’ mia. Colpa, peccato, vendetta, altruismo, sono aspetti e pulsioni che appartengono al genere umano, funzionano a Chicago come a Torino.

    

     9. Il tuo esordio con Le molliche del commissario è arrivato relativamente tardi. Una cosa che non si verifica spessissimo nel panorama editoriale italiano, dove quella dell’Esordiente è ormai una sorta di categoria merceologica ben precisa e coccolata. Quando hai scoperto la vocazione per la scrittura?

Non so se per me la scrittura sia una vocazione. Più che nella scrittura, forse, il piacere istintivo lo provo nell’inventare storie, un desiderio nato con la lettura dei primi libri da che mi ricordo, in particolare Ventimila leghe sotto i mari. Appartengo a quella generazione i cui ragazzi sognavano sulle pagine di Verne. Il desiderio di scrivere è venuto tardi, quasi che il desiderio dirompente di raccontare storie potesse e dovesse trovare finalmente uno sfogo. Non sono un film maker, né un pittore, né uno scultore... Scrivere era la cosa più immediata da fare. Ho iniziato a scrivere romanzi circa vent’anni fa.

    

     10. Sappiamo che, nonostante i tanti mutamenti che la stanno interessando, l’Editoria e il suo mondo esercitano ancora un grande fascino su chi sogna di averci a che fare, da addetto ai lavori o da autore. Qual è la tua esperienza in tal senso? Ciò che immaginavi osservando questo ambiente dall’esterno in cosa coincide e in cosa differisce da ciò che hai vissuto direttamente entrandone a far parte come scrittore pubblicato, che durante il suo primo anno di “carriera” ha compiuto il classico tour per librerie e premi letterari di provincia?

Diciamo che qui è entrata in gioco la mia doppia personalità. Se guardo l’intera faccenda con l’occhio del professionista d’azienda, delle logiche manageriali e del marketing, rispondo che il business ha le sue regole e valgono sia che produci componenti elettronici, shampoo per capelli o qualsiasi altro prodotto di largo consumo. In questo senso contano dati e valori collaudati e codificati, basati principalmente sui numeri. Se hai un prodotto interessante, un pubblico potenziale sufficientemente ampio e aggredibile puoi dire la tua, sennò... il romanzo rimane nel cassetto. Ecco, quest’ultimo passaggio del ragionamento, all’inizio, mi era indigesto. Nel senso che mi sforzavo di mantenere un contegno distaccato, mutuato dal mio background professionale, e di guardare all’editoria e alla mia personale avventura in questo mondo applicando questi criteri. Se le cose fossero andate male, mi dicevo, non dovevo rimanerci troppo male. È il mercato, in fondo.
Ma a vederla così, lo ammetto, non ci sono mai riuscito. Alla fine di tutti i miei bei ragionamenti, venivo sempre assalito dal dato più intimo, legato alla passione, al piacere di sognare, di immaginare un pubblico che rispondesse alla mia creatività. Una parte di me che se ne frega bellamente delle dinamiche aziendali e vorrebbe che su tutto svettasse il sentimento, il desiderio di far parte di un mondo straordinario, che ti permette di entrare nelle case e parlare con la gente attraverso i tuoi personaggi. Alla fine, ahimé, ha prevalso questo tipo di sguardo. Ricordo bene l’emozione di quando finalmente terminai la prima stesura del Paradosso di Napoleone, per non parlare del mio primo romanzo: la copertina, vederlo sugli scaffali delle librerie... L’aspetto romantico dell’editoria, dello scrivere e del fare libri, tutto sommato è ancora vivo.

Carlo F. De Filippis vive e lavora a Chieri, sulle colline torinesi. Salvatore Vivacqua, il commissario siciliano trapiantato sotto la Mole, è alla seconda indagine dopo Le molliche del commissario, romanzo uscito per Giunti.

 

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