Silvio D’Arzo, ora che scrivo, mi è toccato correggerlo a mano perché Word insisteva a sostituirlo con “d’arso”, ché Silvio non sa proprio chi sia. E mi pare che già dica tanto, di lui, questo fatto. Non lo conosce nessuno questo scrittore, o quasi, e tra quei quasi ci sono io, anche se nemmeno io lo conosco benissimo, perché di ogni scrittore non si conosce che la costa e il primo entroterra (chi ha letto tutto di Flaubert, di Yates, di Tolstoj?), che per D’Arzo geograficamente equivalgono a un racconto lungo, Casa d’altri, e ad altri scritti, tutti estesi poco più di niente.

Questo fatto non m’ha impedito, più volte, anche la prima in cui mi trovai a dover dire qualcosa delle mie preferenze – all’editore che mi fece esordire –, di annoverarlo tra le stelle polari del mio firmamento letterario, e non lo dissi per distinguermi rispetto a chi, al mio posto, ne avrebbero indicate altre, ma perché davvero la scrittura di Silvio D’Arzo è stata per me, ed è ancora, qualcosa di meraviglioso. Di meraviglioso. Non è una iperbole. E il complemento di limitazione non circoscrive le mie preferenze, ma separa me stesso, che l’ho letto, da chi ancora non lo ha fatto, perché innamorarsene, tutti, anche a leggerne un rigo o l’incipit di un racconto, io ci metto la mano sul fuoco, è scontato.

“Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente. Ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai più di una città distrutta dal fuoco”.

Oppure:

“È passato del tempo. Mio padre è morto: Giovanna è morta: Davide è, a modo suo, un felice ragazzo”.

La prosa darziana (marziana, insiste Word) la si riconosce al volo, e non è una cosa da niente: capita forse in pittura (Modigliani, El Greco), in musica (le chitarre dei Real Estate), nel disegno animato (un fotogramma dello studio Ghibli), ma in letteratura, che si riconosca un autore, uno stile, da un paragrafo in tutto, se questo stile ha un valore, è qualcosa. Se un valore ce l’ha: perché un ciclista che pedali e stringa il manubrio in modo diverso da tutti e poi non si piazzi che ultimo o quasi, non importerebbe a nessuno. In letteratura mi vengono in mente, qui adesso, Fenoglio e Hrabal, che di grandi classiche o Tour de France ne hanno vinti parecchi ciascuno. In D’arzo, nella sua scrittura, risiede per me tutto il fascino. Ed è su questo che voglio insistere, anche se, ad esempio, il suo piccolo grande capolavoro, Casa d’altri, tratta in sostanza di eutanasia e il tema è più attuale che mai; ma non è per la sua attualità (soltanto) che io vorrei fosse letto da tutti. È perché è in lui una diversità magica delle parole, della costruzione della frase, dell’uso della punteggiatura che leggerlo la prima volta equivale a guardare Michael Chang al Roland-Garros dell’89 quando fece impazzire Ivan Lendl in ottavi di finale, servendo la prima palla dal basso anziché dall’alto: senza per questo infrangere nessuna regola. 

La prima cosa bella della scrittura di Silvio D’Arzo è il ritmo, la musicalità; è arrembante e circolare come sono le onde; ha la forza – non scherzo – di un refrain che non riesci a toglierti dalla testa, che non se ne va a lettura ultimata, che si insinua tra le tue cose e lo ritrovi in una mail di lavoro, in un post su Facebook, in una frase che dici, dove aggiungi o togli una “d” eufonica o usi “soltanto” al posto di “solo” per farla avverare. È meravigliosamente infestante, contagiosa questa scrittura, il cui segreto è custodito in una resistente quanto leggera architettura decasillabica (sillaba più, sillaba meno) che non si perde o deforma nemmeno passando dal discorso indiretto al diretto.

“Così mi lasciai indietro le case e lo stagno, e poi la locanda, e poi camposanto e torbiera, e dopo un poco ero solo, e attorno a me non c’erano che gole e calanchi e più in là qualche pascolo e più in là ancora il costone dei monti”.

Ed ha, questa sua scrittura, come si vede già qui, un’indole paratattica forte e fortissima, sulla quale il decasillabo si distende con agio, evitando di piegarsi scomodamente, se solo si provasse a metterla davvero in versi, nell’artificio dell’enjambement.

La seconda cosa incredibile è l’uso che D’Arzo fa dei due punti. È come alle fiere il venditore di quei minuscoli fischietti che si mettono sulla lingua, dai quali egli, il venditore, trae il verso melodioso di un usignolo e noi invece, che l’acquistiamo per la perspicua semplicità dell’oggetto e della meccanica, otteniamo il verso, se non sono pernacchie soltanto e lapilli di bava, di un corvo o di una gazza ladra innamorata. È così: soffiamo sul fischietto dei due punti e ne ricaviamo la spiegazione necessaria a una proposizione dichiarativa oppure un elenco di oggetti o di azioni; soffia D’Arzo sui due punti e gli riesce tutt’altro, come si è visto nel secondo estratto, poco sopra, o qui di seguito nella descrizione del curato di Casa d’altri:

“Perché ormai io ero un prete da sagre: ero un prete da sagre e nient’altro: su questo non c’era più dubbio. Per un matrimonio alla buona e dottrina ai ragazzi e metter d’accordo anche sette caprai per un fazzoletto di pascolo non ero poi peggio di un altro: e così se un marito cominciava ad usare un po’ troppo la cinghia. Ecco solo il mio pane oramai: altra roba non era per me”.

O anche qui, in modo straordinario:

Passarono ancora otto giorni: e poi dieci”.

Poi qui:

“Fu una sera. Sul finire di ottobre.
Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così. Senza nemmeno un pensiero. Era tardi, era freddo, ero ancora per strada: dovevo scendere a casa, ecco tutto”.

In D’Arzo i due punti non spiegano se non di rado, quasi mai, invece aggiungono immagini, notazioni, dettagli ad altre immagini, notazioni, dettagli; funzionano come cornici e come cesure tra versi, piccoli atolli dove il fiato riposa un istante; somigliano a mani che scostano il folto dell’erba per mostrare un sasso, e poi su quel sasso: una crepa.

Un’ultima cosa, tutta sua anche questa. Le sue pagine sono piene di: così, un po’ così, poco più, poco meno, e anche meno, tutto, niente, niente di niente, gran che, in un certo senso, appena appena, sì e no, lì per lì, ecco tutto, ecco il fatto e poi altre ancora. È fitta davvero la sua prosa di queste formule colloquiali che cercano sempre di aggiustare la mira di quanto si è detto, anche se solo a occhio, con una bilancia su cui si siano cancellati i numeri, ed è sorprendente invece che tutta questa approssimazione, questo continuo mancare di poco il bersaglio di una emozione o di un pensiero, renda esattamente quella emozione e quel pensiero, perché in noi stessi non abitano che così: siamo un po’ tristi, un po’ allegri oppure così: né tristi e né allegri. Nessuno è mai triste, nessuno è mai allegro. Sembra davvero non ci sia altro modo per dirlo.

Bene: non aggiungo altro. Certo mi si potrà dire adesso però: è un funambolo della scrittura, ecco tutto. Uno che scrive diverso dagli altri. Ma la sostanza, dov’è? La sostanza c’è, eccome. Per dire: Montale, e prima di lui Cecchi, hanno definito «perfetto» Casa d’altri, ed è opinione diffusa che Penny Wirton e sua madre sia, dopo Pinocchio, il nostro più bel libro per ragazzi. In Contea Inglese sono contenuti invece validissimi saggi su alcuni autori anglosassoni e ci sono racconti, come Due Vecchi, Elegia della signora Nodier, Alla giornata, che rimangono impressi fortissimo per leggerezza e malinconia. No, quindi, non è D’Arzo soltanto uno che gioca a tennis in modo originale e strampalato, è uno scrittore vero: nel 1989 Chang, dopo aver superato Lendl agli ottavi, sconfisse in finale Stefan Edberg e si aggiudicò il titolo nel più importante torneo al mondo sulla terra rossa.

Alla snai degli scrittori, allora, fossi in voi, un eurino su D’Arzo, a scommetterlo, io andrei.
Prendetela come una soffiata.

 

Matteo Cellini insegna in una piccola scuola media e ha scritto due storie: Cate, io (Fazi, 2013) e La primavera di Gordon Copperny jr (Bompiani, 2016).

L’illustrazione è tratta da Carson Ellis, Casa.

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