Questo è il racconto di una digressione.
Ieri ho aperto l’ultimo libro di Kent Haruf, Le nostre anime di notte (NN Editore) e ho cominciato a leggere. Mi sono fermato quasi subito. A bloccarmi alla seconda pagina è stata una specie di vertigine, corrispondente alla battuta di Addie Moore: «Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?». In effetti era notte, mia moglie e le bambine dormivano al piano di sopra. Mia moglie, le bambine: la vita davanti a me. Perché dietro di me non c’è più niente, se non uno sterminio dell’albero genealogico, e dunque non è un caso che io trascorra le mie notti evitando di mettermi a letto col futuro. Non è casuale questo consumare una quantità di tempo mettendosi a cincischiare col passato. Forse – tanto diceva la vertigine aperta da Haruf – è addirittura adeguato.

Così mi sono messo a scartabellare negli hard disk di mio padre, nella miniera di fotografie passate sotto la lastra di un robusto scanner HP, finché non ho pescato quella riprodotta qui. È una foto del 1965, l’ha scattata mia nonna Clara a Livorno: dentro ci sono un allegro sottotenente di fanteria, mio padre a ventitré anni, e un vecchio signore dall’altra parte del tavolo. Si tratta di Pio, il nonno che non ho mai conosciuto, perché qualche tempo dopo questo pranzo morirà. Si vede già dalla sua espressione, la piega delle labbra, la ceramica degli occhi tristi, un arto esile che affonda nella manica della camicia.

Mio nonno Pio era un fotografo professionista, la foto fa parte di un dittico: la seconda, presa da lui, è meno “in posa” – il sottotenente che versa un bicchiere di vino alla madre. Stranamente, però, quella che mi colpisce di più è questa qui. Non so. Gli Antenati che guardano dritto nell’obiettivo. Questo fatto, la “documentazione” dell’istante, solleva l’immagine dall’artificio in cui essa sembrerebbe realizzarsi. Quei due stanno guardando me, adesso. Il rettangolo che dovrebbe incastonarli in verità li libera, permette loro un salto straordinario fra i decenni. Forse è vero che sono le immagini a guardarti, e non viceversa. Se fosse così l’apparecchio fotografico sarebbe una macchina del tempo, che muove gli sguardi verso il futuro. Il segreto è nella neutralità dell’obiettivo, la sua neutralità innanzitutto morale. L’effetto è lo stesso che mi fanno i personaggi di Haruf, che sembrano sempre fissarti dai recessi di un tempo vago, con quel nitore neutro che a molti fa quasi male.

Ero nel pieno della mia digressione. Avevo poggiato il libro e guardavo la foto da qualche minuto. La metà moderata della mia famiglia: mio nonno Pio, lo sconosciuto dallo sguardo dolce e mesto, e mio padre Roberto, ancora atteso dalla bellezza, dalla sicurezza e un po’ anche dall’imprudenza della sua età. Istintivamente li paragonavo all’altra faccia di un’eredità antropologica: mia madre, i suoi genitori. Gente venuta dalla Romagna, gente spiccia, sanguigna, che non si vergognava di chiedere lo sconto, gente contadina capace d’inventarsi un commercio (piante e fiori), capace di fare soldi. Mio nonno Giannetto, per dire: l’altra metà del cielo, il castigatore di braccianti grassottelle, il ricciuto bersagliere di novanta chili col baffo assassino e il pisello che frangar non flectar. Universi separati, almeno fino a quello strano matrimonio…

I due che mi guardano dalla foto sono i cittadini, i trasteverini, accomunati agli altri da un beffardo destino oncologico, dal regesto di tumori più o meno crudeli, più o meno inesorabili, che mi hanno falcidiato l’asse verticale: nonno Giannetto (gamba), nonno Pio (fegato), Rossana, la sorella di mio padre (fegato), nonna Giulia, madre di mia madre (cervello), Anna Maria, mia madre (polmoni), Roberto, mio padre (polmoni). Forse, saltando dalle pagine di Haruf alla fotografia livornese, pensavo di chiarire l’enigma delle angosce biografico-famigliari: ecco un mondo di persone, tutte dietro di me, che avranno avuto il loro bel daffare a mitigare il pensiero della morte, a sforzare un sorriso per la macchina fotografica impugnata da un parente, che avranno avuto le loro notti affollate di domande che gli ghiacciavano il sangue. La mia famiglia, prediletta da carcinomi & altre aberrazioni cellulari. E poi ci sono i personaggi di Haruf, per i quali lo spazio notturno si svuota e quasi diventa esso stesso la loro angoscia. Dopo molti anni trascorsi in una sorta di venerazione degli attributi “orfici” della notte (chiarezza, rivelazione), ecco uno scrittore che mi riferisce tutto questo come connesso a un’idea di deteriorità, e con un odore di indispensabile. Devo ammettere che mai nessuno, parlando delle cose che si perdono, era riuscito a cacciarmi così in profondità nel territorio delle cose che effettivamente ho perduto. Haruf apre il suo spazio “peggiore” con la discrezione di una frase, è una delle sue capacità costanti. In Benedizione Dad Lewis sogna, e nel sogno richiama a sé le persone perdute disegnando per loro un’area di ricomposizione in cui alla fine vediamo sedute figure che contemporaneamente sono-e-non-sono i suoi cari, cioè un’area definitivamente eccentrica. Esistono in fotografia obiettivi di tipo “decentrabile”: grazie ad essi si possono forzare i vincoli di simmetria tra l’asse ottico e il piano focale, il che significa che posso correggere le naturali aberrazioni dovute al punto di ripresa, oppure introdurre una distorsione anche marcata che poi chi “legge” l’immagine potrà trovare particolarmente allusiva. Parlo per suggestioni, non voglio istituire alcuna analogia fra la scrittura di Haruf e un settore, molto specifico, della tecnica fotografica. Devo dire però che quello che Missiroli ha chiamato il «dio timido» di Haruf, che «sta sopra le sue creature, ma che non disdegna di barcollare con loro», mi sembra d’un tratto la naturale didascalia affettiva di uno sguardo che si propaga sulle rette della discrezione e dell’eccentricità.

Nella foto, il pranzo è terminato. Il vino è stato bevuto, le bottiglie d’acqua sono vuote. Le due tazzine da caffè marcano sulla tovaglia la conclusione del rito. Fra gli oggetti di questa immagine regna un ordine che potrei definire militare se non temessi il bisticcio immediato coi gradi che brillano sulla divisa di mio padre. Penso che Haruf sia uno scrittore straordinario anche in questo: sa trattenersi senza sforzo apparente sul gradino in ombra tra il bisticcio e la parodia. Mi domando sempre, e non lo saprò mai, cosa abbiano mangiato quel giorno. Livorno, il cartellone «Gancia» che guasta la dominante azzurro-marinaresca della parete. Un caciucco, una frittura. Li guardo e insistono a non dirmelo. Ora che ci penso, ho visto mio padre spettinato solo una volta in tutta la mia vita: da morto, nella corsia di un Pronto Soccorso. Le sue mani sono vicine all’immancabile posacenere. Mia nonna Clara invece fumava solo al ristorante. Per l’occasione nonno Pio le comprava un pacchetto di sigarette «Eva». Questa, di tutto il contesto del pranzo che l’immagine vorrebbe raccontare, è l’unica informazione che possiedo per certa (nonna mi avrà raccontato il rito delle Eva un milione di volte). Di tutto il visibile stipato in quella superficie l’unica informazione sicura è quella che non si vede.

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