Quanti Martini beve James Bond? Quante pipe fuma Maigret? O ancora, scendendo più nel merceologico dettaglio, quanti Montecristo avrà aspirato Barney Panofsky nella sua Versione? Quante Snapple avrà bevuto Victor Ward in Glamorama? L'enumerazione o, per meglio dire, la ripetizione, è un espediente tradizionalmente efficace nella costruzione di un carattere. Gli dà vita perché, dall'ideale dimensione della concezione creativa, lo cala sul terreno a noi più accessibile della routine. La routine, dunque, è vita. La routine, al contrario dell'avidità "cantata" da Gordon Gekko, non purifica no, né affina, né seleziona in base ad alcun meccanismo agonistico che i teorici del liberalismo ci hanno insegnato ad apprezzare o disprezzare... Al contrario ci amalgama e avvicina e confonde, e così, debitamente agitati non mescolati, ci ritroviamo in comode celle attigue, ognuna consacrata a un tic diverso.

È lo spessore concreto, mondano – in una parola realtà – ciò che la routine conferisce a quelle figurine fatte di puro racconto, ritagliate sulla carta dalle parole, che sono i personaggi letterari. Nella ripetizione della routine un personaggio ci si avvicina, rivestito d'una trama un po' più grossolana ma tangibile; quella stessa lana di cui è fatta la copertina di Linus. In ogni Martini ingollato ci riconosciamo. In ogni Montecristo fumato, noi ci siamo. Noi col fegato più o meno sano. Noi lettori, che della ripetizione facciamo, compulsivamente, la musica dei nostri giorni. «La vita intera è una ripetizione», si legge nel risvolto di copertina dell'edizione Bur de La ripetizione di SØren Kierkegaard. «La speranza è un vestito nuovo fiammante e inamidato ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza a pennello senza stringere né ballare addosso». Di comodità abbiamo bisogno. Quelle felpe un po' sudaticce e bucherellate che continuiamo a portare a casa (nei film americani ne spunta sempre qualcuna, magari con la scritta HARVARD, dentro cui geme il cuore infranto del protagonista, appena mollato dalla fidanzata e chiuso in casa da una settimana); la pausa pranzo sempre nello stesso posto (ma perché?, e se davvero si potesse, confessiamolo, sempre allo stesso tavolo); il brivido di poterci avvicinare a un barista per dire bogartianamente, un giorno, «il solito». Ci piacciono queste cose. Non neghiamolo. Ci piace ripetere gesti ed esperienze per riscaldarne la neutralità, come un martello che picchia sul metallo. Sempre sullo stesso punto, più e più volte. I personaggi seriali e la verità della vita, James Bond e SØren Kierkegaard, dicono la stessa cosa: You live only twice, gorgheggia Nancy Sinatra, «Si vive solo due volte», le fa eco 007, e giù un altro Martini, un altro amplesso, ché la seconda è sempre la meglio. E il filosofo danese sceglie una storia d'amore per esporre la sua teoria della ripetizione, cioè che solo la seconda volta si vive, si gode, si capisce.