Kenton Nelson600



Ogni mattina vado in pellegrinaggio al cesso, tiro dritto sulla faccia costernata dei fantolini appesi al lastrone di legno derivato da un vecchio tirocinio parigino folle d’amour e joie de vivre – chili d’aragosta, soprattutto, legname tarlato, muffe di Mouffetard, ostriche turistiche sui Campi Elisi, la forchettina da maramaldo che non lèsina il colpo mortale – e mi accoccolo sulla tazza come un basileo dell’antica Persia, mentre i fantolini in carrousel reclamizzano indomiti un sapone di Marseille (savon des jolies bebè), la manna notturna calata sullo specchio polverizza in una sciagura di puntolini bianchi, la polvere sciala, il gallo canta (ma è la suoneria di un cellulare), le maniglie spandono gli ultimi fulgori di un’onorata carriera al servizio del Concetto di Apertura: ecco, l’apertura, soprattutto, col passare degli anni è diventata una faccenda macchinosa – un diaframma dopo l’altro mi sono ritrovato qui, imbolsito nel bozzolo fremente di gerontospasmi, di anginospasmi, di leucospasmi – e ho dimenticato il segreto delle combinazioni, l’arte del sofisma, la vanità peculiare al mordi e fuggi, l’affaccio rapido, l’istinto a rilegare tutte le cose assieme in un colpo solo: apri, verifica, un’occhiata alla pelle, gira il rubinetto, hai usato i cottonfiocc, raccogli lo spazzolino, poggia lo spazzolino, nel frattempo visione di un tubo spremuto dal centro – che rabbia mentolata, che insofferenza al fluoro! – pastiglie per nettare, la schiumosa reminiscenza di una dentiera a mollo in composti effervescenti, la faccia facciosa di mio nonno, Charlie Brown incanutito, l’ombra del trasalimento quando mi scopre a giocherellare con l’arco di molari posticci, l’ombra, quella, che trascorre come il frullo di un passero: tu, bambino demente! – in verità bambino curioso, cioè bambino-bambinoso – e lava e sciacqua e strizza e striglia, sempre tutto ricade in una teoria dell’aprire, open-close, aprire e chiudere frammenti, deambulare fra i ricordi, datemi il bastone bianco del non-vedente, datemi un riottoso pastore tedesco che mi salverà dal semaforo e dall’incrocio fatale, datemi anche una pagina, soltanto mezza? mi accontento pure di un paragrafetto, ma intanto dove stanno i cottonfiocc (li hai finiti, stronzo, due giorni fa), e va bene: la partita a shangai è rimandata di un quarto d’ora, il tempo di trasferire questo corpaccione in cucina, voltolare gli sportelli in un’ansia isterica, eccoli là, gli stuzzicadenti del samurai, spade, spadoni e bokken, lo dice anche la marca, o forse recita una sigla come Kendo, Kenzo, Kenzaburo, in ogni caso anche qui: taglio, ferita, squarcio, aperture, sempre e comunque, dove un tempo c’era la costanza dell’esistere adesso è tutto un sopravvivere della sola costanza, la costanza messa a sistema, la costanza in cattedra, la costanza regolatrice, e c’è un bolo dietro il mio occhio destro, lo sento, una costante anche quella, da qui fino alla prossima rivelazione, nel frattempo puoi mietere tutta una disciplina di domande agghiaccianti: tumore? sicuro, non ci facciamo mancare niente, nervo infiammato, proteina impazzita, distacco della retina, in effetti non ci vedo più tanto bene, la faccia lì mi sembra sfocata, grani di miglio, un principio di lanugine, sarà l’origine di una barba rada, disossata, depilata ma in veloce repelimento, repelizzazione – mio nonno, nelle stimmate dell’infanzia, aveva una barba uguale a questa, e poteva sembrare un adolescente che invecchiava alla svelta, o Christopher Lambert: di fatto non gli è bastata una vita a disserrare il mistero dell’età, quello no, quello aveva sigilli troppo saldi anche per un marcantonio come lui, cresciuto a lambrusco e tortellini, l’euforia sterminata di un dopoguerra vissuto con eccessiva passione per le braccianti coi capelli annodati dentro a un fazzoletto – troppo, troppo facile per un bersagliere del suo stampo, col baffo charmant e il pisello che frangar non flectar: e dunque bella gerant alii, tu felix nonno tromba! e dai che trombava, concedetemi l’espressione: mortacci sua come trombava, il mio nonno maratoneta, l’antenato fresco di tv a colori (primo del quartiere), l’uomo-marketing della panspermia, che il mezzadro del conte – sarà stato il Cinquantadue – gli domandava se avesse turato il vino, e lui gli aveva turato tutta una schiatta di ruvide lavoratrici dei campi, zigomi rubicondi e braccia grassottelle, mio nonno che manco aveva letto Catullo, ma mentula moechatur lo conosceva bene, perché ogni erba ha la sua pentola, e ogni pentola il suo coperchio, e dammi cento lire – cantava – che in America voglio andar, mentre per lo più la sua esperienza in fatto di contrade straniere si rammendava attorno a qualche mese di prigionia in un carcere della perfida Albione, dove stimando e stornellando si cattivava le attenzioni di queste infermierotte piedilunghi, tutte ‘ste Florence Nightingale innamorate del baffo militar-guascone, che non spiccicavano una sillaba d’italiano ma lui, magister pompinorum, travalicava le barriere linguistiche con vero impegno d’asceta… medaglia di guerra dovevano farlo, o almeno ripagarlo d’un guiderdone civile, un Cav., un Cav. Uff., un Comm., un Gr. Cr.: Gran Croce, amico lettore, per lui che invece mio lettore non lo è stato mai, ma pur sempre – e dico ciao – un mon semblable, un mon frère.

*Art by Kenton Nelson