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A non poche persone - ma è una stima del tutto personale - dev'essere successo di chiudere, amareggiate, un libro di Houellebecq. A misurarsi con tale amarezza non è una categoria particolare di lettore: ho avuto la sensazione, parlando con diversi amici, di una diagonalità di quel particolare fastidio. In genere dipende dall'inflessione saggistica di molte pagine, dall'estrema ricercatezza delle osservazioni, dalla perizia che le sottomette all'ordine di un dialogo o di una schidionata che arriva sempre al momento giusto, quello in cui di solito gli autori ad alto tasso letterario amano incidere la metafora che dovrà illuminare la nostra comprensione del libro (nel caso di Sottomissione, direi che si tratta del passaggio in cui il protagonista accosta le rive della Dordogna e riflette sul destino dei Neandertal, ricacciati verso la Spagna dall'espansione dei Cro-Magnon). Ancora, un germe di quel fastidio potremmo rintracciarlo, come una vena o un detrito, nelle massicce arcate narrative in cui Houellebecq dà conto degli sviluppi di una situazione, e che spesso (troppo, a sentire i suoi detrattori) poggiano sulla simulazione della cronaca, sotto la specie di un giornalismo piuttosto accattivante, ma sempre distinguibile (qui starebbe il fallo) dalla pagina romanzesca. É anche vero che i personaggi di Houellebecq mantengono da un libro all'altro una coerenza impareggiabile (e la coerenza non è mai una fattispecie della noia), in buona parte dovuta al fatto di offrirsi alla stregua di referti: autopsie pre-mortem, prelievi da una socialità disgregata, carotaggi della deriva nichilista europea. Il che fa sembrare quegli stessi personaggi – quando vagano da un posto all'altro, quando si mettono a misurare la propria infelicità – poco meno di fantasmi in pena, poco più di sagome che fluttuano in un desolato teatro d'ombre. Eppure Houellebecq riesce sempre a dotare queste sue forme di un nitore invidiabile. Sarà che la voce specifica dei suoi romanzi converge in un nodo strettissimo con gli argomenti, e orienta facilmente il nostro giudizio sulla sua prosa: freddezza, selezione, calcolo, esattezza, tutto ciò che insomma concorre alla definizione di un autore particolarmente "spietato". Il riferimento costante, poi, a un certo lessico scientifico - il romanzo come genere accumulatore di linguaggi: questa ovvietà così poco praticata - non fa che aumentare l'impressione che anche nelle necessarie giunture delle vicende che racconta, negli snodi dialogici di transito, nelle zone a carattere più "scarico", Houellebecq non si allontani mai da un discorso sui massimi sistemi. La casa di Rediger in Sottomissione, per dire, è un inno alle figure galattiche, al gigantismo dei sistemi stellari. Il romanzo e la vita dell'universo: vocazione da grande scrittore, con esiti fallimentari (Don De Lillo, La stella di Ratner, ma è un fallimento sospetto: come a dire che deve fallire il romanzo, là dove pure fallisce la scienza in generale), accanto a esiti anche strepitosi (ma soffocati dal brusio di quello che il Montale di Satura definiva "il cielo ominizzato": Martin Amis, L'informazione). Houellebecq progetta per dicotomie, ama le scissioni narrative del personaggio, credo che per uno scrittore come lui la rappresentazione di divergenze parallele sia l'elemento che non garantisce tanto l'originalità del racconto quanto piuttosto la sua esemplarità. Quali siano poi i mezzi specifici con cui Houellebecq persegue un supposto asse esemplare ogni lettore può giudicarlo facilmente da sé. In Sottomissione il tema del Doppelgänger, che l'occidente ha praticato con fervore da Hoffmann a Palaniuk, ruota attorno a una drammatizzazione piuttosto ordinaria: l'intreccio tra le vicende di un personaggio attuale (solitamente un grigio studioso o uno scrittore più o meno squinternato) e l'opera/vita di un celebre autore del passato. Più che un'idea, è una tentazione in cui molti sono caduti, per uscirne con le ossa rotte - fra gli ultimi, in casa nostra, ricordo un ineffabile pastrocchio dal titolo zoologico in cui il secondo termine della dicotomia era nel pieno canone poetico novecentesco (e qui mi fermo, l'oblio è totale, comunque doveva essere una cosa tipo Ratti, mandrilli e Caproni). Houellebecq da parte sua ha scelto Huysmans, e c'è da dire che le pagine sul rapporto tra Huysmans e il protagonista di Sottomissione fanno quasi un (bellissimo) romanzo a sé, la storia di due conversioni antitetiche: un racconto parallelo nel quale però si precisa e si risolve ogni tensione relativa alla traccia principale. Perché poi il legame tra Huysmans e il suo studioso più accanito dà fibra a una serie di quadri che illustrano, appassionatamente, nient'altro che la conclusione delle passioni. Che è desolata (ma non serviva Houellebecq per ricordacelo), che soprattutto è infruttuosa (e questo sì, è decisamente houellebechiano). Michel Onfray ha detto che Sottomissione è un romanzo sull'ignavia, sulla fiacchezza, sul cinismo, sull'opportunismo. Onfray ha ragione. Quest'Europa in stato comatoso, languente nel polmone d'acciaio di un'economia dai tratti paradossali, questa nostra Europa che risponde a tensioni strazianti con inerzie ridicole, ha tuttavia i suoi capisaldi morali, tutti negativi ovviamente, e sono per l'appunto quelli raccontati da Houellebecq e riassunti da Onfray. Il che ci porta alla questione dell'Islam. L'ambientazione del libro è nota: dalle elezioni francesi del 2022 esce vittorioso Mohammed Ben Abbes, che guida una coalizione tra la Fratellanza musulmana, i socialisti e la destra moderata, per scongiurare l'ascesa del Fronte Nazionale di una Marine Le Pen sempre più simile ad Angela Merkel. Le conseguenze sono quelle attese (o temute): l'idea politica di Ben Abbes punta alla fondazione di un impero islamico europeo, capace di interloquire alla pari con le stesse petromonarchie che stanno finanziando l'islamizzazione della cultura francese. Il protagonista di Sottomissione trova commovente lo sforzo economico di Arabia Saudita e Qatar per annettersi l'élite intellettuale di Francia, vale a dire i professori universitari. I colonizzatori ignorano che quella stessa élite, da parecchio tempo, non rappresenta più nulla, non conta più nulla. Il partito dei musulmani lascia volentieri agli alleati ministeri come l'Interno o le Finanze, rivendica con forza quello dell'Istruzione. Da qui la scuola islamica, l'università islamica ecc. L'ideologia ripudia l'economia e sposa la demografia. È un matrimonio che si rivelerà fruttuoso nel giro di poche generazioni - a che serve prendersi la Difesa, se entro qualche anno le leve dell'esercito saranno formate da giovani cresciuti nello studio del Corano? Quello descritto da Houellebecq è il rimpiazzo "effettivo" del Cattolicesimo da parte dell'Islam. Meglio sarebbe dire: delle estreme propaggini di un Cattolicesimo che ha tessuto attorno a sé l'affermazione di una civiltà europea, e si è poi corrotto lentamente con essa dal Rinascimento all'Illuminismo. Robert Rediger, il convertito che sarà Rettore della "nuova" Sorbona, nonché "sottosegretario all'università", è un intellettuale in giubbotto di pelle che muove il suo pensiero, sintomaticamente, tra Nietzsche e Guenon. Viene in mente Orazio: Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio. Una possibilità che Houellebecq non concede - se non in parte - al suo lettore: i convertiti per opportunismo prendono il meglio che l'Islam può offrire, mantengono nel privato tutti i vizi della buona borghesia intellettuale (il cibo, il bere ecc.). In questo travaso repentino della mollezza europea nel ventre di un Islam istituzionalizzato (travaso mediato dall'opportunismo e dalla stringente necessità politica di "ammorbidire" certi strati della società civile per meglio penetrarla) ho creduto di poter leggere le avvisaglie di un futuro collasso. Sul rovescio della storia che racconta la progressiva sottomissione di un intero continente - più i lembi africani del Mediterraneo - c'è il dato, anch'esso allarmante, dell'ingresso nell'Islam di milioni di debosciati europei, con il loro potere passivo di corruzione, agenti patogeni del Basso Impero traslati a forza dentro un humus culturale che non sappiamo - davvero nessuno lo sa - quanto sia preparato a riceverli. La prospettiva del libro, quanto all'assimilazione, è al 2050, un trentennio circa dai fatti narrati. Il racconto è estremamente realistico, nella misura in cui accettiamo le premesse di un Islam palesemente incorruttibile (in questo senso, ci rammenta, conquistabili perché sganciati da una reale matrice religiosa, cadranno prima o poi anche Indiani e Cinesi, o forse resisteranno, comunque nello stremo delle certezze di una cultura millenaria). Forse dobbiamo escludere Sottomissione dall'orizzonte tipico di quei romanzi che usiamo collocare dentro il genere della "distopia". Il libro è tanto più riuscito quanto più elude quest'ultima definizione: Ben Abbes non è il solito dittatore mediatico/sanguinario delle distopie contemporanee, ma un politico vero, con una visione ampia e definita, per certi versi seducente. Proviamo a uscire per un attimo dall'orbita delle culture e pensiamola in termini di "istituzioni". Anche le istituzioni millenarie si trasformano, poi si trascinano, infine cadono, finché non vengono assorbite da altre istituzioni millenarie, o aspiranti tali. Le più vecchie - come tra Cristianesimo e Islam - cedono alle più giovani. Le più fiacche, o le più vigliacche - come l'Università - cedono infine a tutto. L'elemento distopico, se vogliamo sforzarci di trovarne uno, permea il meccanismo retorico senza il quale il romanzo si smonterebbe velocemente, per usura delle premesse: per Houellebecq il ceto intellettuale è autoesiliato, in seno alla società francese, in un ruolo angusto, pigro, marginalissimo, indolente, superfluo. Come può farsi metonimia credibile di quella stessa società? Basta davvero non cogliere una contraddizione (come fanno i petromonarchi che "comprano" la Sorbona, nemmeno fosse il Manchester City o il Paris Saint-Germain), per eliminarla dal quadro generale? Se il romanzo, almeno nei capitoli conclusivi, racconta nient'altro che la consapevolezza di tale incoerenza, allora la conversione finale (che, occorre notarlo, è solamente immaginata dal protagonista) deve per forza lasciare quell'incoerenza allo scoperto: ultima illusione intellettuale circa il proprio grado di civiltà (ma sarebbe un tradimento dell'antropologia di Houellebecq), esercizio quasi automatico di sarcasmo, di fronte all'annientamento. Niente da rimpiangere, dice l'ultima frase. Da un paradosso all'altro. Non c'è niente da rimpiangere quando non c'è mai stato niente che valesse la pena tradire.