Sophia Loren and Clark Gable in Capri 1960

Scrivo da un paese che non esiste più. E ancora, Capri e non più Capri... Parole in prestito per ciò che è stato svenduto. Forse solo smarrito. Eppure, anche oggi, quest’isola invivibile conferma uno scherzo della sorte, ciò che da sempre piace e ci fa male: i posti meno vivibili sono i più belli. Esattamente come le cose più buone son quelle più nocive. Certo vale per l’Italia, intesa anche come “nazionale”: dovevamo essere spazzati via per goderci quello che, forse, è stato il Mondiale più ricco di goal, spettacolare e combattuto di sempre.

Stamattina, approdati ad Amalfi, ci si intratteneva con un vecchietto abbigliato da cartolina: pantaloni di lino bianchi con le pence, mocassini bianchi, camicia di seta lucida giallo uovo, sbottonata, e foulard di seta al collo, bianco anch’esso. Il panama in testa, ovvio. Ci consigliava di non andare al mare a Santa Croce, che lì il sole non l’avremmo preso, e di andare a mangiare da un suo amico ecc. ecc. Nello, si chiamava... quattro figlie, e lo sguardo si fa più piccolo e lucido. In questo squarcio di mondo rimasto impresso su pellicole da restaurare e sull’occhio bambino degli americani, in quest’aiuola sempreverde pesante di limoni e buganvillee, ronzante di motoscafi lontani e bambini che ancora si insultano con gioia tuffandosi dai blocchi di cemento del porto, qui, anzi un poco più in là, dove ti indicano la villa di Sophia Loren e Carlo Ponti; poi l’hanno venduta… ma quante ville vendute, quante ville in quanti posti ad agganciare sguardi dalla barca, attirare indici tesi come lenze nell’aria. Lì, proprio lì sulla costa, quella alta gialla, la vedete? Lì dicono – ma dicono chi? – ci abbia abitato Kennedy.

Io guardo Andrea. Andrea è uno stereotipo rassicurante, scuro scuro e dai denti bianchissimi, che ci traghetta col motoscafo dove vogliamo. Ieri, tutt’intorno a Capri, alla scoperta di anfratti e grotte lontani dalla pazza folla, dalla Grotta Azzurra, dalle sirene degli aliscafi... Ancora c’è qualcosa, lontano. E poi, tra Amalfi e Positano, e poi verso Nerano, dove siamo diretti per il pranzo, lui dice «Signuri’…», e noi seguiamo il suo braccio teso. Ecco la casa gialla, stretta e alta, appesa alla roccia come un tuffatore nel suo momento perfetto, prima di abbracciare il vuoto, poi il mare sotto. Lì dicono – chi, chi è che lo dice? – ci stava Kennedy. Ah, be’, dev’essere stato quando suo padre Joseph era ancora ambasciatore a Londra, faccio io. Quando il figlio, ventenne, si fece il suo bel giro milionario per l’Europa, Italia soprattutto, con una decapottabile rossa e una ragazza nuova al giorno. È famoso quel viaggio, sai? Ci sono le foto… Ma Andrea nemmeno mi sta guardando. Non gl’interessa quel che dico, e fa bene.

La solita villa di Curzio Malaparte, un immenso gianduiotto rosso poggiato in cima al promontorio, poi venduta pure quella. Progettata da un architetto famoso, nome rotondo, Adelmo, Alberto, scivola su un letto di elle, beato chi se lo ricorda.

Tardo pomeriggio e ho sonno. Gli occhi mi si chiudono sul balcone dell’albergo. Mi fa scattare solo il calabrone che di tanto in tanto mi scambia per un fiore e s’avvicina peloso. La prima volta son quasi caduto dal lettino.

Non sto leggendo.

Non sto scrivendo.

Cicale. Cicale dappertutto.