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«Tifare per gli antipatici tedeschi o i finti simpatici brasiliani?»,
«Tenevo per l'Argentina perché ero convinto che avrebbe vinto l'Olanda. Poi, durante i rigori, capendo come sarebbe andata, ho preso a tifare Olanda...».
Sono giusto un paio di sms scambiati con gli amici, in questi ultimi giorni di semifinali mondiali. La dicono lunga sullo gnommero emotivo, infantile e masochistico, che il calcio è in grado di ‎sprigionare... Accendo la TV e trovo un giornalista di Sky che starnazza: «Il Napoli tifa per Higuain... Il Napoli può vincere ancora il Mondiale!».
L'unico commento che mi viene di fare è che qui amiamo la letteratura. E forse, accontentando chi pretende vi sia differenza, amiamo ancor di più la narrativa, quella buona. Quindi non posso non essere felice per il fatto che il miglior giocatore del mondo (resta tale, pur percorrendo non più di 20 metri a partita) sia in finale contro la squadra attualmente più forte del mondo.
Il romanzo è dunque questo:
vorrei che la Germania annichilisse l'Argentina, mostrasse la sua imbarazzante superiorità, tenendo sempre il pallone, centrando quattro pali e otto traverse. Magari segnando: 1 a 0 fino all'89esimo.
Ma ecco che Messi riceve palla‎ sulla tre quarti.
Inizia il suo solito procedere senza senso, uno zigzagare in orizzontale, da destra verso sinistra, con la palla che però, sotto incantesimo, non si sposta dal suo piede sinistro per più di uno o due centimetri. È un ronzio, quello di Messi, uno piccolo disturbo scattoso che va per il campo, piccolo piccolo va, verso il centro va, va col sinistro, col sinistro che pare sprigionare quel ronzio, quel piedino colorato nello scarpino vivace come l'addome di una vespa. Va e si ferma, scatta e si riferma‎, perde palla per un attimo, ginocchio di Hummels o Schweisteiger o come cavolo si scrivono 'sti cubi viventi che s'affollano attorno a una biglia... Perché questo è Messi, ora, nel momento sospeso che lo sport ogni tanto regala: un sfera che scivola tra cubi, e non so dirlo meglio di così, mentro lo vedo, lo leggo, al centro, la lunetta dell'area di rigore davanti a lui, ma quel pallone si ribella ancora, gli spigoli puntati sono tanti, e allora c'è un esterno destro a soccorrere il sinistro, e una frenata brusca, il pallone di nuovo tra le gambe, e un tocco, il tunnel, un tedesco troppo lento, e di nuovo quel sinistro che ronza, e il pallone che rotola, no, scivola, non si sa come, tra le caviglie di due turcomanni con passaporto deutschlandese, e c'è una finta, lo scarpino a mezz'aria, ma il tiro non parte, c'è ancora un cubo da scherzare, saltare, ed ecco il portiere, quel Sigfrido più bello d'un dio, alto tre metri pesante duecento chili apertura alare più ampia del cielo, il portiere già esce, ora lo ammazza!, ma si ferma tutto. Fermo Sigfrido – c'è un'ultima frase da scrivere per chiudere il poema –, fermo quel piccolo ometto scuro, fermo il pallone, e il piedino appuntito nell'aria arroventata dall'umidità e dai riflettori, quel piedino d'un tratto riprende colore, ronza ancora.
E punge, finalmente fa male.
Fa male a un popolo, fa male agli occhi, fa male a chi non sopporta la fine di ogni storia.
È goal. Il goal più bello della storia. Il gesto più bello dell'umanità. L'istante più solido nel mare infinito del tempo.
È goal. È 1 a 1.
Messi.
Messi ha segnato.
Messi è dio.
Messi ci salverà, senza aggiungere una "a" al suo nome.
Messi curerà l'uomo dal dolore. Ci regalerà la memoria, staccherà ricordi come gemme dalla roccia nera dei nostri anni persi, e quelle gemme resteranno con noi. Ce le regala lui. Ce le regala un piede. E un pallone. E ciò che insieme sanno essere. Volontà, potere, contro i trabocchetti dell'esistenza.
Goal. 1 a 1. Ma non è un pareggio. L'Argentina ha vinto, ha già vinto. La Germania lo sa. Ha visto quel sinistro, ha sentito la puntura. Il veleno fa già effetto. ‎Perderà ai rigori.