Ha preso il via questo weekend negli USA la settima e ultima stagione di Mad Men

si chiude l'esperienza del confezionamento di un mondo
 che sarebbe diventato reale soltanto decenni dopo.



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Seduto sulla poltrona. Il braccio destro disteso sulla spalliera. La mano penzola svogliatamente. Non c'è orizzonte davanti, ma lo sguardo si muove comunque perso verso una prospettiva priva di un punto di fuoco. Manca una sigaretta fumante tra le dita per essere davvero Don Draper. E forse uno scotch doppio malto, con due cubetti di ghiaccio da roteare all'interno del bicchiere. È difficile essere perfetti nella realtà, figurarsi nella replica.

Rimane la sospensione di una decisione, banale e struggente al tempo stesso: attendere l'arrivo dell'Ultima Stagione di Mad Men, il lungo passo d'addio sugli schermi americani, oppure prendere il DVD con le serie precedenti (va bene pure un hard-disk con la successione delle puntate, dipende dalla dimestichezza con la tecnologia che si possiede) e tuffarsi nel mondo dei pubblicitari della Madison Avenue?

Che poi la questione sarebbe molto più complicata. Non basta infatti scegliere la disponibilità sicura dell'oggetto presente al posto del differimento del desiderio per la novità in arrivo. Se non si vuole attendere, a che cosa effettivamente si è disposti a cedere? Al desiderio di rivedere la successione completa delle stagioni già trasmesse? Un arco narrativo specifico? O solo le puntate che si ritengono decisive per la storia?

La ricerca di una risposta, e di un criterio che ci permetta di togliere il braccio dalla spalliera e di passare a una qualche forma di azione operosa, ci riporta nella stanze grigie dell'appartamento newyorkese di Don. Dovrebbe essere la quarta stagione, quando lui viene cacciato di casa da Betty e si ritrova a vivere da solo in città, diviso tra il lavoro che ne assorbe le giornate, le donne che ne attraggono le pulsioni e l'alcol che tacita ogni rigurgito di dubbio.

Davanti alla disponibilità tecnologica che confonde l'atto della volontà, il tempo che vive Don è un tempo che sorprende. Sorprende come flusso nella quotidianità, come relazione con gli oggetti, come misura dell'anima.

Innanzitutto, gli spazi che caratterizzano la scansione del giorno. È una vita vissuta per lo più in luoghi chiusi, definiti nell'estensione e nella funzione. C'è l'ufficio, su tutti. L'ingresso, il corridoio, la stanza e la sala riunioni. Qui Don sembra davvero in controllo degli eventi. Il cliente, l'idea, lo slogan, l'imprevisto, la concorrenza sono figure che compongono un puzzle unitario, nel quale l'estro del pubblicitario, riconosciuto unanimamente come uomo di successo, trova l'elemento di continuità, il particolare che trasforma l'imprevisto in narrazione. Il divano, la sedia, il telefono. Lo spazio disegna la certezza della presenza. Quando si è a lavoro, si è lì, soltanto lì, nel territorio sicuro della proprio professione. Ci sono i locali notturni, i bar, i ristoranti come altro dell'ufficio. La luminosità trasparente dei grattacieli costruiti per il guadagno, le vetrate, le prospettive sulla città si rovesciano nel cupo baluginare di luci soffuse e tentatrici. Sono luoghi ambigui, dove si mescola l'arte della persuasione e la ricerca della tentazione. Ambigui nel risultato che possono generare, ma certi nella definizione dello spazio d'esistenza. Il bar è il divertimento, l'oblio della competizione, l'ebbrezza della conquista. L'oscurità è l'espressione diretta che l'alcol ha sulla coscienza.
C'è molto di America in questa dicotomia, molto di una cultura dell'alcol e del lavoro che noi europei abbiamo difficoltà a comprendere.

Nella continua tensione tra i due poli opposti, eccellenza del riconoscimento sociale e devastazione dell'identità personale, Don Draper riassume alla perfezione questa categoria duale. È un perdente che ha successo oppure, rovesciando il punto di vista, un vincente incapace di accontentarsi della vittoria. La cartina di tornasole di entrambe queste dimensioni è il terzo e conclusivo luogo sicuro della quotidianità esistenziale: la casa.

Quando riesce a limitare il demone della distruzione, Don è l'uomo di famiglia, il marito che ritorna a casa la sera dopo un'estenuante giornata di lavoro, il padre che gioca con i figli al parco, nelle rare scene all'aperto della serie. Quando la vittoria della vita pubblica non trova resistenze all'esterno, trionfa il seduttore alcolizzato che si alza la mattina senza sapere bene dove sia, annodato tra le lenzuola sfatte, in un appartamento scarno e freddo, la luce livida che entra dalle finestre.

Anche nelle situazioni peggiori, negli esiti imprevisti o nelle decisione sbagliate c'è sempre la sicurezza che il luogo sia comunque qualcosa di certo, definito, univoco. Come gli oggetti che si collocano in esso. Non c'è margine di possibilità, di moltiplicazione della scelta, di annullamento della distanza intenzionale. L'automobile, l'ascensore, la penna o il telefono: a ciascuna cosa corrisponde una funzione, un'azione, un'utilità. C'è il bicchiere di cristallo per versare il whiskey, ci sono le bottiglie accanto, sopra il carrello dei liquori. Il divano per riposarsi. Il tavolo su cui posare i bozzetti o i giornali. La scrivania con le matite, le prove delle campagne e i documenti della contabilità. La modernità bussa alla porta della vita dei pubblicitari rampanti. Le vetture sono costruite con motori potenti e l'accendisigari, ma rimangono automobili. Le radio riempiono di suoni le grandi hall degli alberghi o le sale dei ristoranti. Il giradischi trasforma il miracolo del suono in un piccolo esercizio domestico. L'aereo cancella la geografia e l'uomo si sente signore del cielo. Il magazine condensa un mondo in espansione in articoli e immagini. Il giornale santifica il giorno, trasformandolo in cronaca. Cresce in quegli anni la televisione che nega la lontananza e accende la magia della prossimità. Il sogno californiano di Hollywood assume fattezze impreviste, il fermento genera una realtà in divenire. Per Don il mezzo che vive nella scatola tecnologica è solo uno strumento in più per diffondere la pubblicità e per guadagnare più soldi. La certezza degli oggetti si incrina. Il sospetto insinua nella percezione del reale che esista un mondo dove gli stessi oggetti siano altro, siano migliori, più performanti, più moderni, più belli. Si distoglie lo sguardo dalla singola cosa che si ha a portata di mano e si utilizza in quell'istante, per quella precisa azione. Si guarda oltre, all'oggetto che sarà, che potrà essere, che potremo acquistare.

La stessa certezza dei luoghi viene messa in discussione. C'è una finestra ulteriore che revoca l'unicità dell'appartenenza. Si può essere sulla terra e sulla Luna (l'evento del racconto televisivo della discesa dell'uomo sulla Luna si riverbera nella serie ormai giunta, nel succedersi delle stagioni, alla fine degli anni '60). La casa, l'ufficio e il bar perdono la granitica certezza della funzione. Smettono di essere ciò che semplicemente sono, di legittimarsi nella sicurezza della definizione. E Don, come il mondo intorno, nel corso del decennio disperde le sue certezze.

Nel susseguirsi delle puntate l'inquietudine del protagonista sembra essere l'inevitabile esprimersi del progredire della vita, del confronto con problemi sempre più grandi che l'età adulta richiede di affrontare. Invece, anno narrativo dopo anno, emerge un lato oscuro di tensione che non si riesce a ridurre al naturale peso del vivere. C'è qualcosa di più, di ulteriore. Il tempo che misura l'estensione dell'anima conduce Don alla progressiva perdita di certezza del cammino che sta effettuando. È come se ci sia una sorta di inversione nella parabola del pubblicitario di talento: quanto più avanza nella professione, nella società, nella ricchezza e nella presa sul mondo, tanto più si accumulano le nubi del dubbio. Sfugge continuamente qualcosa. Don ne è consapevole. Cerca di resistere, di cambiare. La realtà si confonde, scompare progressivamente la corrispondenza tra l'azione e l'intenzione, tra l'oggetto e l'utilizzo. Riemerge dalle notti del passato il doppio di Don: Dick.

Il mondo si duplica, si moltiplica. C'è Dick con la vita trasfigurata e soffocata. C'è Don con la vita conquistata ed espropriata. All'inizio il secondo aveva preso il posto del primo. Nel corso della serie la confusione che progredisce nel mondo esterno dilaga anche nell'anima del protagonista. Don è sempre meno Don e Dick ritorna sempre più a galla (la conclusione della sesta stagione è significativamente espressione di questa "confusione").

In questa perdita di sicurezza nei confronti del mondo e degli oggetti che ne fanno parte si origina la fascinazione e la nostalgia che genera la visione Mad Men. L'inizio vive di nostalgia attiva per un mondo certo che noi guardiamo ormai da lontano, un mondo che regalava uno squadernarsi produttivo e una chiara direttrice di futuro. Questo mondo accendeva la nostalgia nella fascinazione dell'assenza. Il progredire della serie disperde la certezza lungo il fluire del tempo. Don Draper perde la via, volontariamente. Non sa verso cosa si stia muovendo. Intorno, a poco a poco, si sbriciolano i contorni definiti della realtà che lui stesso, attraverso la persuasione pubblicitaria, aveva contribuito a rendere più evanescente. Questo genera nello spettatore una nostalgia differente, quasi passiva. È l'esperire attraverso la trasfigurazione visiva un tempo altro, andato, che perde la certezza di sé e di quello che sarà. È uno strano cortocircuito percettivo, insomma: l'esperienza di vedere nell'origine quasi embrionale, quasi inconsapevole, la nascita di quello che diventa reale nei decenni successivi, vissuti oltre che dai personaggi finzionali della serie, dai reali spettattori del sovramondo televisio e tecnologico.

Intanto – a qualcuno sarà accaduto – si resta avvinti nei pensieri e nell'interpretazione. Le possibilità che oggetti e luoghi ci concedevano sono scorsi davanti agli occhi, troppo rigogliosi nella molteplicità delle varianti offerte. Non abbiamo scelto. La mano penzola ancora dalla poltrona. Ci si alza, finalmente. Si afferra un bicchiere, si versano due dita di whisky. Soffermandosi sull'odore caldo e legnoso. Un sorso. Una pausa. Un altro sorso. A qualcuno Don tiene compagnia.


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