rain

 

...e storie tremende, anche tremendissime, sulle insidie dei rovesci, dell'infausto fortunale, che spesso cominciavano con un passante travolto dalla camionetta impazzita – mai fidarsi del selciatino: austerità, aridità! – il passante con l'ombrello come un gomitolo di spire, un personaggio alla Raymond Queneau, una delle mille vite di Jacques L'Aumone, o forse era Roland Barthes, anche lui investito, schiantato (il furgoncino assassino) – e non so se piovesse davanti al Collège de France, di sicuro non ricordo l'ora esatta, ma che morte sottile! E là finiva la parabola strutturalista, e finiva dove cominciava uno strambo mito della leggerezza: poi qualcuno – pioggia o non pioggia – ci avrebbe ricamato su una mascheroneide dell'effimero, una predicuccia tamburellante, perché bastava aggiungere un cafferino con chiacchiere, spostare la vicenda collettiva tra i viottoli meno flaneuristici dell'Urbe, collocare quattro guitti all'aperto di un teatrino... et voilà era servito il sogno vitalista dell'estate romana, l'antidoto a certa grandeur olezzante di maldigerito nietzscheanesimo: l'estate dell'effimero, l'effimero – come usava dire – "realizzato", mandato giù a furia di sentenze, la pioggia dei referti, dei conti, dei dispacci comunali, brigate di marrani, bargelli disorientati dal palpito del jazz, aspiranti sindaci con referenze fondiarie, aspiranti assessori con referenze cabarettistiche, ma soprattutto aspiranti. Urbe còndita e condìta, e nel frattempo sotto il velo d'acqua mulinante a prora degli speroni aureliani – transito di checche sbiadite, mercé di libagioni per pennaioli e pennisti dell'ultima ora, quelli protervi e "senza un briciolo di stile", per carità! – l'animale sommerso drizzava le pinne, gonfiava un paio di branchie colossali, e noialtri leggiucchiavamo di straforo qualche antologia di Vigolo o Muscetta, un Belli esorbitante (Quattro angioloni co' le tromme 'n bocca / Se metteranno uno pe' cantone / A ssonà: poi co' tanto de vocione / Cominceranno a dì: "Fôra a chi ttocca"), il Belli der giudizzio, perché dentro la palingesi universale ci sta sempre bene l'ouverture temporalesca (come pure ci dimostrava il Montale d'Arsenio, coi turbini, la polvere, i mulinelli e i cavalli incappucciati e tutte le altre sagome che apparecchiavano apocalissi fradicie, o bagnaticce, o insomma: inzaccherate quel giusto). Agli altri bastava forse un Trilussa preso di scorcio, come certe care logore stampette in casa della bisnonna (e il suo cuore tenerello, assieme al pentolino d'ordinanza che bullicava sul fuoco – riso e lenticchie, i capisaldi, aut fittissima pasta e fagioli): Su l'archetto ar cantone de la piazza / ar posto der lampione che c'è adesso, / ce stava un Cristo e un Angelo de gesso / che reggeva un lumino in una tazza. / Più c'era un quadro, indove una regazza / veniva libberata da un ossesso: / ricordo de un miracolo successo / sbiadito da la pioggia e da la guazza. Poi venne la pioggia dei viaggi, pochi all'inizio ma belli da far tremare, e di quel bacio alla fermata del 671, quello che t'avrebbe saldato alla memoria i caduti della Montagnola, perché la piazza era quella, con la pasticceria e il refolo caldissimo dei krapfen appena sfornati, e avevate litigato come due stronzi: lei ti aveva raggiunto in bicicletta e quando eri sceso l'avevi trovata là, sotto la pioggia, col fiatone e i capelli appiccicati alle tempie, arrotolati dalla pioggia su quegli zigomi impercettibili, e poi ti aveva guardato coi suoi occhi cilestri di estenuata fanciulla moraviana, gli occhi di una malata uscita da certe pagine cupe, cupissime dei Racconti della Pescara, e tu avevi lasciato che ogni suggestione fosse risucchiata dal suo bacio incattivito, perché era come se dicesse: via, lasciamo stare, ché tanto finiremo per annegare in tutta questa pioggia, ed era il millenovecentottantanove, non l'altro ieri, e tu avevi diciassette anni, e la pioggia fino a quel giorno ti era sempre rimasta indifferente. Intanto, come l'ultimo parvenu arrivato tardi a cena con una scusa roboante dietro al sorriso smaltato, scorticavi i romanzi del tuo Robbe-Grillet per non capirci quasi niente: la pioggia toccava le persiane (quali?) e infastidiva tua madre, le cui predilezioni letterarie sono rimaste per te un mistero impenetrabile, e infatti per molti anni ti è sembrato che leggesse solamente quell'unico romanzo di Liala, Il pianoro delle ginestre – il tuo animo leopardiano non sapeva se sdegnarsi – e poi due giorni prima di morire, fissando tuo padre che usciva di casa col suo completo di lino al cospetto di un improbabile acquazzone di settembre, ha sfoderato all'improvviso due versi di Pascoli: Oh! Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini, e tu subito a chiederti quale nubifragio di romanzetti d'appendice avesse sommerso quella chincaglieria scolastica, e quale soprattutto il miracolo che l'aveva testardamente riportata a galla: tuo padre molto abbronzato, forse un po' troppo date le circostanze, un Paul Newmann imbolsito nella zona ventrale dalla consuetudine coi ristorantini prediletti – l'immancabile flûte di Foss Marai, due aragoste alla catalana, la carampana sterminatrice di ostriche qualche tavolo più in là, che fruga nel ghiaccio tritato (gira voce che sia dedita allo strozzinaggio) e t'impartisce soavemente la sua mollezza di parrucca allo spiedo. Decidi di scrutarla di traverso, mimetizzando l'occhiata dietro un'ascesa di bollicine, e "il tuo delirio sale agli astri ormai". Montale, Mediterraneo. Ma adesso piègati, fa' il favore, ritorna a certi paragrafi insistentemente piovosi dei gialli che macinavi da ragazzino, ruderi di città americane immerse nel piovasco perenne, dietro ogni angolo l'emissario della Funzione Negativa pronto a massaggiarti le gengive con un cric, la torva metempsicosi dei bulletti che affollavano le tue peraltro eminentissime salesianissime privatissime scuole medie e superiori. La pioggia, evocata solo per onomatopea, che chiudeva il poemetto di T.S. Eliot che citavi alla tua ragazza di allora – shanti shanti shanti, come la divinità indiana della pace – che per avventura o forse per un sferica coincidenza si chiamava Irene. Poi la pioggia sopra il tuo presente, guarda: allaga la scrivania. La pioggia dei maledetti relativi che occorrono per imporre al paragrafo un ritmo scrosciante quando provi a salvare un pezzo di memoria: come il ritratto di Azzurra che avevi fatto fare a Place du Tertre, il carboncino che sfrigolava sulla carta ruvida seguendo la piega dei capelli e a te sembrava un giro snervante di compasso (maledetto John Donne, che ti ha fregato le metafore migliori): e quando era finita il ritratto era scivolato in una cartelletta, e dalla cartelletta a una borsellina di pelle, quindi in un cassetto al piano seminterrato nella casa dei tuoi, infine dentro una busta in garage. Un giorno la pioggia ha allagato tutto, dall'Infernetto fino a Vitinia, e quando ti sei messo a cercare hai pescato in quella melma un fogliaccio stinto e stracciato. Allora finalmente, quindici anni dopo la vostra notte in treno – alla Gare de Lyon eravate scesi indolenziti, tenendovi per mano sotto una pioggia fatta di spilli – allora e solo allora hai ricordato per davvero il suo viso.