Phillip Roth

 

Più leggo gli scrittori che amo, più mi rendo conto che la passione che li accomuna è quella di distruggere, di suppliziare, di massacrare le vite dei loro personaggi. Questo fatto confligge con l'idea, accarezzata spesso, che lo scrittore sia sostanzialmente un inventore di storie, un affabulatore provetto. Che insomma il gusto sia soprattutto là, nell'invenzione, sorretta da una gradevole capacità di prosa. Ma mentre mi avvicino, pericolosamente, a quell'età in cui si smette di leggere libri nuovi e si comincia a tornare continuamente su quelli già letti – che danno molto più piacere – ecco... mi vado convincendo di aver scambiato la causa con l'effetto, di aver sovrapposto alla verità del mio rapporto con certi libri l'ipocrisia di un luogo comune. Intelletto sadico, sado-diegesi, scegliete voi la definizione, basta che permanga in essa una qualche idea di sadismo. Inventio ed elocutio, come le definivano i retori da Cicerone a Quintiliano, non sono che gli effetti positivi, la pars construens, l'orlo socialmente accettabile di questa fissazione al degrado delle esistenze altrui: se davvero un autore è il dio della propria opera, se davvero lo è, allora devo immaginarmi una divinità infingarda, il malvagio dio minore degli gnostici, questo onnipotente bastardo i cui esecrabili talenti sono la vessazione e la tortura. E cazzo, quanto mi piace!