Ho rivisto da poco un film che quando uscì non mi fece particolare impressione: L'attimo fuggente, di Peter Weir. Parliamo di quasi ventiquattro anni fa, eppure il diciassettenne accomodato di traverso sulla poltroncina del Cinema Fiamma riuscì a trovarlo un film furbastro, retorico, inverosimile. Forse erano i segni di un cinismo da Perestrojka, i sussulti di un aspirante intellettuale – non ancora maturando – alle soglie del magico novembre berlinese, forse ero semplicemente un coglione con quel tanto di spocchia antiamericana a prescindere, non lo so più, ma l'idea del singolo che trionfa in rettitudine sul sistema che lo espelle, questa idea di godersi la vittoria morale mentre i cattivi ti prendono a calci nel culo... be', a diciassette anni non mi andava giù. L'anno prima era uscito Rambo III, dedicato (bei tempi dell'innocenza) "al valoroso popolo afghano". Diversa morale, medesima inverosimiglianza.

L'altra sera, comunque, ho deciso di rivederlo. Fotogrammi scolastici d'antico opificio di sapienza, panorami spettacolari sul genere "autumn in New England", col verde brillante di certe dolci colline erbose che sussultano di godimento sotto la sferza giallo-vermiglia delle chiome d'acero, e tonnellate di foglie che vengono giù, per fare tappeto a una vicenda che se spalanca un interno domestico è sempre una pigra stanzotta giallognola rivestita di noce, la boiserie che mandava in sollucchero una buona frangia della borghesia americana, diciamo quella vicina al Grand Old Party. Mi ha fatto specie che l'eroe dai muscoli smerigliati della Realpolitik statunitense dovesse dividere l'inerme destino del suo alter ego intellettuale, con tanto di esperienza didattica nella «rinomata Chester School di Londra»: vedere corroso il proprio potere metaforico, vederlo sopravanzare dalla brutalità della lettera. La stessa sorte che ha risucchiato gli alfieri reaganiani di Top Gun, ve li ricordate? Quella filza di bei manzi scottati dal sole durante una partita di beach-volley. Le metafore hanno perduto il loro significato, gli oggetti hanno resistito all'usura: la boiserie di noce resta un classico dell'arredo, il ceto medio, negli usa, non esiste più. Il valoroso popolo afghano: prima buoni, poi cattivi, infine cattivissimi. Magari tra un po' ritorneranno buoni. Cos'è che non muta mai nella serie di Rambo? L'affidabile meccanica dell'm-60, protagonista indiscusso – peraltro – di una valanga di film di guerra. Insomma, le metafore trascorrono, sbiadiscono, ed è giusto così. La verità di una metafora è legata alla comprensione della cultura che l'ha prodotta. L'oggetto ha una sua forza letterale. Non bisognerebbe badare troppo alle metafore. A diciassette anni, distratto da una metafora che ritenevo odiosa, mi è sfuggito un fatto che adesso mi pare evidente (se decido di intendere la poesia come un "oggetto" sulla scena): lo scrittore più menzionato nel film è Walt Whitman, il secondo è Shakespeare, all'inizio viene fatto il nome di Byron, in una grotta si evoca Thoreau. La fiumana poetica in modern english si arresta alle soglie del Novecento. Questo fatto può colorare, non so quanto intenzionalmente, il titolo originale del film: Dead Poets Society. Gli unici versi contemporanei sono quelli improvvisati dagli studentini di Welton. I poeti estinti siamo noi, non c'è mai stato un Novecento esemplare. Ecco, questa prospettiva, questo limite forzoso della focale storico-critica m'indispettisce, mi fa gridare vendetta contro il film di Peter Weir.

P.S. La vendetta per fortuna c'è stata. Nel film di Weir il giovane Neil Perry si suicida perché il padre, fermamente deciso a fare di lui un medico, ostacola la sua carriera di attore. Dopo L'attimo fuggente, Robert Sean Leonard, che interpretava il giovane Neil, ha avuto una carriera senza infamia e senza lode, finché non è stato scelto per interpretare il personaggio di James Wilson a fianco del Dr. House. Non so, che Leonard vestisse dopo tre lustri i panni di un primario di oncologia laureato alla McGill University... mi è sembrato un perfido contrappasso. Ecco cosa succede, mi sono detto, se ti ammazzi prima che un garbato insegnante d'inglese ti faccia leggere almeno Robert Frost.

Fabrizio Patriarca