Guardò i libri sulla scrivania: un'edizione alquanto bolsa del Decameron spalancata sulla confessione di Ser Ciappelletto, la copia anastatica dell'Hypnerotomachia Poliphilii di Francesco Colonna poggiata di traverso sui Deipnosofisti di Ateneo, il secondo canto del Paradiso in bella vista dalle pagine limpide di un Meridiano. Le terzine erano quelle in cui Beatrice demoliva la spiegazione grossolana che Dante aveva proposto per le macchie lunari. Controllò l'orologio, nei prossimi dieci minuti sarebbe stato preda di un monumentale thriller sociopolitico, poi avrebbe guadagnato un po' d'aria tuffandosi in un fantasy scritto da una simpatica sedicenne rappresentata da un nonno-manager che a tempo perso gestiva uno studio commerciale, e soltanto quando fosse uscito indenne dal primo capitolo di una spy story ambientata tra Segrate e Marcallo con Casone avrebbe finalmente fronteggiato il manoscritto del giorno: Culo, gnocca e Dire Straits a go-go, di Filita Reverso. Sperò con tutte le forze che si trattasse di uno pseudonimo, così come l'apparenza sembrava suggerire. Se l'era tenuto in serbo per il finale di giornata, quel manoscritto, alimentando ora dopo ora l'inquietante desiderio che sempre accompagna l'essere umano quando si appresta a saggiare il limite ultimo di qualcosa...

 Dopo undici pagine di thriller sociopolitico sentì di aver raggiunto l'apice di uno stralunato progresso interiore: continuò a voltare le facciate del gigantesco Pdf in maniera meccanica, ipnotizzato dalla danza delle righe che saltavano come scoiattoli anoressici. A pagina venti avvertì una specie d'impennata del kharma, seguita da un istante di buio (durante il quale calcolò che la sua energia psicofisica corrispondeva attualmente a quella di un battuto di verdure): l'esperienza culminò in uno sbadiglio dal retrogusto sapienziale, vagamente arcigno, torbido e severo quanto pensò che fosse giusto. Beatrice insisteva sull'evidenza del principio formale che determina la diversa luminosità dei corpi celesti, e così avrebbe fatto per sempre, perché la Commedia era un testo immortale, certo, ma soprattutto perché tutto quello che succede lì dentro, anche le parole che Dante ascolta da questo o quello spirito... be', tutto questo avviene una volta sola, e una soltanto, nel corso dell'intera eternità. Per una sola volta nell'eternità il centauro si tira indietro la barba. Per una sola volta nell'eternità a Paolo Malatesta viene concesso di piangere. Per una sola volta nell'eternità un diavolo scorreggia. Pensò che la faccenda del "una sola volta in tutta l'eternità" fosse il più grande espediente narrativo mai inventato. Ciò che accade a Dante nel suo giretto ultraterreno, accade solo a lui e solo quella volta. A un personaggio con questa fortuna sfacciata non devi nemmeno sforzarti di fornire una psicologia credibile. Gli basta l'unicità dello Straordinario.

 Su Culo, gnocca e Dire Straits a go-go doveva scrivere una scheda di diecimila battute. Provò di nuovo a raccogliere le forze, mentre spingeva le dita tremanti verso lo scartafaccio di Filita Reverso. Il tizio aveva elaborato anche una bozza di copertina, dove una ruota – o forse era un'ellisse non troppo schiacciata – di chiappe sanguinanti stringeva d'assedio una Fender Stratocaster spezzata in due. E a guardare con più attenzione, vale a dire nella simmetria perfetta dei punti di frattura, si rivelava un profilo stilizzato e inconfondibile. Era un utero, quello. Senza alcun dubbio. Con evidenti problemi di prolasso.

Attaccò il primo capitolo con la disposizione d'animo di un velociraptor all'ora di pranzo. A pagina sette la parola «chiavare» con tutto il vasto apparato sinonimico si era già conquistata un posto d'onore nell'accogliente complesso dei suoi sensi di nausea, staccando di pochissime occorrenze l'avverbio «maialescamente». Appuntò qualche estratto:

«Buongiorno», disse, con tono maialesco nella voce, «sono il nuovo inquilino del terzo piano».
[...] Azionò il termostato a parete, e nello sfiorare il bottone d'accensione si sentì un vero maiale.
[...] Teneva il muso sprofondato tra quelle zinnone.
[...] Ma andava in apnea, lubrico, e succhiava con ottemperanza.

L'ultimo era un acrostico di una certa intelligenza. Si domandò se anche in questo caso valesse il principio del "una sola volta in tutta l'eternità", poi dovette staccarsi dalla scrivania, perché sua moglie lo reclamava in cucina. Quando la raggiunse e la trovò impegnata a caricare la lavastoviglie non poté fare a meno di dedicare alla sua sagoma accovacciata un brevissimo, maialesco pensiero:
«Ma lo sai che sei una bella zinnona?».
«Uh? Che dici?».
«Vieni qua, dai!».
«OK, OK. Sei impazzito. A volte capita, a voi quarantenni».
«No», commentò con un bagliore negli occhi, «sei tu. Mi fai l'effetto di un termostato a parete!».
«Senti, gira l'insalata e... girala bene! Poi chiudila in un sacchetto e mettila nel frigo».
Guardò il frigo, candido, liscio, non-maialesco.
La luce della plafoniera lo colpiva di sghembo – odiosa fluorescenza del risparmio energetico – separando nel metallo della calotta esterna zone più scure e altre zone chiare, quasi abbaglianti. Un principio formale, non aveva dubbi, stava agendo dietro il fenomeno. Ebbe il sospetto che ogni cosa contenuta nella cucina, moglie compresa, avesse a che fare con la teoria delle macchie lunari, che ricapitolò tra sé e sé, con un ultimo pensiero alla logica stringente di Beatrice. Lume della grazia. Splendida maialona.

Fabrizio Patriarca