Presentazione di un esordiente. L'esordiente parla. Parlano dell'esordiente. Di quel che ha scritto. E poi salta fuori la sua biografia. Ma la biografia ha un peso nella valutazione di un testo? Un racconto, un romanzo, non dovrebbe poter essere autosufficiente, indipendentemente da cosa fa/è il suo autore? L'esordiente è un esperto di David Lynch. Lo so, è un crimine punibile col carcere da uno a sei mesi, ma a me non interessa nemmeno di Lynch.

L'autore descrive spazi narrativi che non riesco ad abitare. A te, esordiente, cosa interessa? Sei innamorato-interessato-disgustato da ciò che racconti? Non mi sembra, e quindi nemmeno io me ne innamoro, m'interesso, né resto disgustata. Sei innamorato delle parole che usi, le tue, questo sì. E ora, suvvia, prendi una decisione, io credo nell'esattezza in narrativa! Il racconto non decide se vuole essere fantastico, psicopatologico, delirante o realistico. È l'ambiguità che è interessante. Non toglieteci l'ambiguità divorata da quel mainstream che ormai è la nostra narrativa. E stai attento: perché usi due similitudini così diverse per descrivere qualcosa? Non mi permetti di avere una visione nitida.

 E qui mi fermo. Mentre risuonano le parole degli editor/consulenti editoriali e del critico letterario reclutato per la presentazione, dilaga una nebulosa di interrogativi su selfpublishing, esordiente quale "categoria merceologica", l'editoria che cambia pelle, è possibile prescindere dai gusti del pubblico, dal mercato, cosa vuole l'editore che pubblica e cosa cerca chi vuol recensire... Forse, un tempo, i due desiderata coincidevano con più agio e frequenza, almeno fino a qualche decennio fa, ché oggi il pubblico dei lettori si è allargato, l'editoria volens nolens è "industria editoriale", si è "democraticizzata", è di largo consumo. Ma la narrativa, la letteratura!, non dovrebbe arricchirci, farci essere protagonisti di mondi non noti, fornirci interpretazioni, far pensare? E se invece c'è chi vuole distrarsi soltanto, smettere di pensare, non avere più pensieri, "evadere", come oggi si sente spesso dire.

La domanda resta, sempre la stessa, semplice e irrisolvibile: cosa cercare in quel che si legge, se leggere e cercare qualcosa è la propria professione? Come tenere a bada il gusto, analizzare scrittura, lingua e stile, forza dei personaggi, senza dimenticare che di là, in attesa, c'è il pubblico lettore? E quale lettore tra le tante specie di lettori possibili? Il giudizio può piegarsi alla molteplicità pragmatica, all'utilizzazione "finale" del libro? Qual è il limite del compromesso – ebbene sì, senza giri di parole – del compromesso al quale ci si deve arrestare per non tradire se stessi e quell'idea di narrativa che nessun mercato potrà mai sradicarci da dosso? Enigmi, tutti.
Beato il lettore, direi, che può scegliere solo quello che gli piace.

Alessandra Penna