Mercoledì 14 giugno, dall’acquario tropicale di Casa Bellonci, si pescherà la cinquina finale di questa edizione del Premio Strega.
WestEgg ha letto i romanzi di due tra i candidati più interessanti. Queste, partendo da un punto di vista comparativo, le nostre considerazioni.

Leggendo Le cento vite di Nemesio di Marco Rossari (e/o) e La stanza profonda di Vanni Santoni (Laterza) non può sfuggire la loro eccentricità rispetto a tanta parte della nostra produzione narrativa di oggi e allo spazio editoriale, intendendo con ciò il mercato, le linee di ricerca e scouting, le “correnti” di appartenenza. Incuriosisce, il dato di tale eccentricità, tanto più se ricordiamo che Marco Rossari e Vanni Santoni sono, oltre che romanzieri, addetti ai lavori che conoscono bene i meccanismi dell’editoria. Non si tratta di due scrittori colti nella fase ombelicale della carriera, vale a dire il suo avvio, quando domina l’istintiva e veniale urgenza di dire soprattutto IO; né semplicemente di due scrittori smaliziati che decidono, con l’usuale combinazione di sincerità e mestiere, di raccontare qualcosa che possa garantirsi una facile penetrazione del mercato.


L’eccentricità in questione si misura non tanto sulla scelta del tema di fondo, che allargando il più possibile l’inquadratura potremmo scorgere in una data reazione di fronte alla realtà, propria ed esterna, in un atteggiamento da assumere, dunque nell’eterno problema del “fare i conti con”, quanto sulle modalità attraverso cui si rilancia questa tensione dialettica con il proprio tempo. La forma, dunque, ancora una volta decide sulla collocazione e sul carattere di un testo. Forma intesa come stile, portato di una scelta autoriale, e come insieme di scelte drammatiche ed espressive di un personaggio entro i confini della fiction.
Nemo, il protagonista del romanzo di Rossari, inizialmente sceglie la stasi: questo il suo atteggiamento, la sua reazione che reazione non è, la sua fuga, che verrà in seguito superata da una cavalcata onirica e iperbolica lungo l’intero arco del Secolo Breve, che breve non sembra per niente.
La seconda persona singolare, voce narrante del romanzo di Vanni Santoni, sceglie invece l’avventura, ma è pur sempre un’avventura “in cattività”, circoscritta al tavolo del gioco di ruolo, così come la corsa un po’ pazza e cialtronesca di Nemo lungo tutto il binario del Novecento è resa possibile da un ampio canale onirico che permette di ripercorrere le orme di un padre celebre, imbarazzante per ingombro e longevità.


nemesio

Del romanzo di Rossari si è scritto e parlato tanto, naturalmente ribadendo gli aspetti più evidenti: un libro è fatto principalmente dalla tonalità emotiva e di sguardo, e qui il tono è irresistibile, tutto giocato sull’intento parodistico: del Presente, questo presente in cui si consuma immobile la vita del protagonista Nemo – si veda il tratteggio del suo posto di lavoro, maschera nella Sala delle Avanguardie delle Avanguardie, la cui postazione sta proprio di fronte a una minuscola collezione di quadri Vuotisti (tutti uguali: cerchio nero in campo bianco), «movimento attivo tra il febbraio e il marzo del 1974 intorno alla periferia di Varese, per l’esattezza tra via Ceradini e via Bottazzi, nei pomeriggi di pioggia», e pensiamo al piglio satirico con cui si dà conto di tutto quel mondo festeggiante tra vernissage e finissage, inaugurazioni e celebrazioni antologiche come quella in onore del centenario padre Nemesio Viti («Vegliardi, carampane, relitti: tutta una fauna, o una flora, a voler prendere in considerazione quelli in stato vegetativo, si sarebbe data convegno...») – e soprattutto del Novecento, questo Secolo che è come il padre, è suo padre, un inseguirsi di esperienze caotiche che nel loro sovrapporsi e superarsi magmatico non fanno che restituire l’essenza stessa della vita. Ciò che, insieme al padre artista, il pur dotato Nemo all’inizio rifiuta categoricamente.

Ma andiamo con ordine. Dentro il Novecento di Rossari c’è tutto: tutto ciò che abbiamo studiato sui libri di scuola, e che il pittore “organico” al pensiero comunista Nemesio Viti ha vissuto se non da protagonista almeno da particella attiva: ragazzo del ’99 schiaffato al fronte durante la Grande Guerra, e poi il secondo conflitto mondiale, e, in mezzo alle due carneficine, la bohème parigina e berlinese... Tra le pagine più memorabili, la descrizione di un’orgia resa con accenti surreali nella Berlino della Repubblica di Weimar al tramonto, ma anche, prima, il racconto di una seduta spiritica in casa di una medium partenopea, molto abile e molto furba, in una parte del romanzo che si diverte a percorrere il catalogo delle mode, anzi delle manie di inizio secolo: lo spiritismo, la depressione da salotto e il successo della psicanalisi. Abbiamo la caricatura di Sibilla Aleramo e di Cesare Lombroso, che alle orecchie del Nemesio Viti bambino suona sinistramente come “L’Ombroso”. Ed è sempre attraverso questi occhi di bambino che si accenna all’età degli scioperi e alla scomparsa della madre Nora, a quanto pare coinvolta nella moda della depressione da interni alto borghesi con tale coerenza da arrivare al suicidio. E naturalmente le avanguardie, che del Novecento sono uno degli abiti più tipici: il Novecento è tutta un’avanguardia, o diciamo che il Novecento è un procedere dialettico innescato dalla lotta fra Tradizione e Avanguardia. Dopo il suo arrivo a Roma da Milano, il giovane Nemesio Viti partecipa a un raduno futurista, e anche qui lo sberleffo è assicurato, come in una fase successiva lo sarà nei riguardi di Fatalisti, Puristi ecc.

C’è spazio per i clichè, resi senza pudore nella loro essenza... clichèttante. Ne è un esempio l’incontro con Hemingway, ferito e convalescente durante la prima guerra mondiale, che non si esime dal proporre una bevuta. Ma naturalmente, qui, il clichè è furbo, non dà fastidio, perché è Nemo, al suo risveglio, dopo una delle tante navigazioni notturne da crononauta, a denunciarlo, e denunciarlo gli è per così dire tipico, è come smitizzare una leggenda, prendere le distanze da una pur facile e dozzinale fantasia, che però sempre fantasia è. C’è qualcosa di vitale nel clichè – in un clichè di questo genere, dell’Hemingway spaccone e beone –, perché è la proiezione di ciò che noi ci divertiamo a credere che sia, sguazzandoci dentro fino a stufare chi ci guarda, proprio come dei bambini. E così, però, Nemo rivela un’attitudine diversa da quella del Padre, della vita del Padre che lui sta suo malgrado reinventando, diversa dalla forza cinetica del Novecento, della Storia, del tempo rispetto al quale non c’è altro da fare che assecondarlo, arrendersi a esso, e in poche parole “viverlo”.

Invece di assecondare, affrontare, vivere, Nemo che fa? Nemo, uno che viene definito «così disimpegnato che quando in centro gli chiedevano di firmare contro qualcosa lui lo faceva», si ostina a restare fermo pur nel moto continuo della vita, e vale come un aforisma ciò che dice al collega Almiro: «La vita continua: continua a restare ferma».
Ora, questo atteggiamento di Nemo deve, a un certo punto, risolversi in qualcosa, approdare da qualche parte...
Lo stratagemma narrativo è l’improvviso malore del padre, proprio durante i festeggiamenti per la mostra antologica a lui dedicata, e alcuni oggetti (tra cui una corona di cartapesta, e poi il piede incancrenito del genitore, amputato durante il suo stato di coma) di cui in qualche modo Nemo si appropria. La situazione innesca l’esperienza da “crononauta” che, notte dopo notte, permette a questo figlio nato vecchio, anzi «nato da uno sperma vecchio», come dice fin dall’inizio in un incipit che sembra strappato a Philip Roth, di trovare il suo modo per FARE I CONTI CON.
Con chi?
Con il Padre, ovviamente; ma ciò significa anche con la Tradizione, con il Secolo trascorso... Ma questo benedetto Novecento, che non è passato e non passerà, perché ha in sé dei meccanismi cinetici e per certi versi spirituali che sono universali, alla fine è anche la rappresentazione figurata di cosa, se non della Vita stessa? Tutta da affrontare, la Vita. E l’unico strumento che ci aiuta in questo senso è ciò che siamo e da cui veniamo, qualcosa con cui scendere a patti, non necessariamente accettandolo, ma di certo non negandolo e, dunque, almeno affrontandolo, interpretandolo, reinventandolo. È ciò che il trentenne Nemo ha la ventura di poter fare; ed è ciò che fa Marco Rossari, che mi pare si diverta un mondo in questa sua corsa attraverso il Novecento, infilandoci dentro anche tutto quello che più gli piace: pensiamo al cameo di Billy Wilder (colto poco prima di scappare dall’Europa in via di nazificazione per poi sbarcare a Hollywood), a quello di Primo Carnera, a Hemingway stesso... E al di là di questi guizzi, di questi “oggetti amati” in un’oggettologia che ha un ruolo importante all’interno della storia, è il Marco Rossari TRADUTTORE, secondo me, che si avvicina alla materia da lui fronteggiata in questo romanzo.

Fin dalle prime pagine incontriamo riferimenti divertiti e divertenti ad «albe russe», a «duelli», a «Puškin», il motorino di Nemo si chiama «Ronzinante»... Questo si presta a due piani di lettura diversi: da una parte si potrebbe pensare che tutta la strabordante materia che è la Storia, il Novecento, e il modo in cui il romanzo ne fa un’irresistibile disamina, sia anche il modo con cui uno scrittore, un traduttore e un lettore fanno i conti con la Letteratura, il peso di una Tradizione tanto amata, ma è un amore che rischia di lasciarti immobile davanti all’oggetto amato. E Nemo vive così, infatti. Sta fermo.
Dall’altra, però, è tutto il movimento di Nemo, del romanzo e di Rossari stesso in rapporto al Secolo passato a farmi pensare all’atteggiamento proprio del traduttore. Se l’idea è che Marco Rossari traduca il Novecento, è perché la sua operazione non si limita soltanto a far percorrere la Storia al suo personaggio attraverso un espediente narrativo e l’angolo visuale che gli è proprio, un po’ guascone, parodistico, dissacratorio, come abbiamo detto. Questo perché il personaggio e il tempo di Nemesio Viti, attraverso cui si dà lo stile di racconto del libro, è come se restituissero la verità del Tempo stesso, la sua consistenza materica, la sua essenza per così dire divina. Come Dio, che di sé dice «Io sono colui che è», lo stesso si può dire in ultimo della Storia, del Tempo e della Vita, al di là delle interpretazioni filosofiche o religiose formulate nei secoli.
È qualcosa che c’è, questa Storia, questo Secolo, questo Tempo, questo Esserci. Qualcosa che pesa. E l’unico modo per rapportarsi a tutto questo è esserci a propria volta. E ciò che gioco forza deve finalmente fare Nemo, gettato dal sogno e dalla volontà dell’autore tra le onde di questo oceano rischioso perché mai fermo come lui pretenderebbe.

Ecco, dunque, la traduzione di Rossari del Novecento: non presentarlo semplicemente attraverso uno stile – serioso, realistico, surreale, parodistico, a seconda delle scelte di un autore –, ma restituircelo nel suo caos vivo, nel moto ondoso in cui il crononauta Nemo procede e che inonda la pagina.
È un concetto che emerge chiaramente in uno dei passaggi più belli del romanzo: Nemesio Viti legge dei versi di Rilke, c’è una lieve riflessione sul fatto che, chissà, il termine «petto» si poteva forse rendere meglio con «cuore», mentre «essenza» sarebbe stato magari più indicato di «esistenza». E a un certo punto leggiamo che «tradurre non è solo aiutare il lettore che non conosce la lingua, fornire la propria versione di un testo, esercitare una funzione di servizio. È molto di più...». Ma è proprio perché alla fine questa è una traduzione del Novecento, che del lavoro del traduttore rispetta il codice deontologico, che noi leggiamo questa resa dei conti di Nemo con il padre e la memoria non come una fuga, una negazione, individuandola nella positività di un gesto opposto, in un tuffarsi dentro il padre e il suo secolo, appropriandosene finalmente, attraverso un’invenzione onirica, come di qualcosa di estremamente vitale, vitale nella sua disorganicità, nella ribalda confusione a cui il romanzo dà voce, esperienza dopo esperienza, momento dopo momento, perché solo i libri di scuola incasellano il tempo, la storia, la realtà: e forse per questo ci aspettiamo che le cose siano più facili e schematiche di quanto non siano – «Studia!, che farai strada».

Nemo, alla fine, si deciderà a leggere l’autoagiografia del padre Nemesio, e naturalmente scoprirà qualcosa di più semplice, lineare, fors’anche prosaico rispetto a quella sorta di brancaleonesco poema epico che la sua mente ha percorso durante tutta una settimana. Ma questa “nuova versione più vera” del Padre fa il paio con l’icastica semplicità delle righe scritte su un pezzetto di carta che volteggia nell’aria di una Milano appena bombardata. Nemesio raccoglie e legge. Non è altro che una lista della spesa – «mezzo etto di farina, 4 uova, 2 pagnotte, burro...» ecc. –, che però lo commuove più dei versi di Rilke. La lista è stata scritta dall’amata Lotte ormai scomparsa, ma non è solo questo che rende commovente il passaggio. Il fatto è che una lista della spesa, qui più che mai, ci dice la verità sulla Vita... la Vita che, ci piace tanto dire, è ciò che capita mentre siamo impegnati a fare altro. E non c’è che da viverla.

Un altro momento è emblematico di questa interpretazione circa il rapporto con il tempo, e la verità sull’essere nel tempo, che sta al centro del romanzo: la reazione di Nemo alla morte, vissuta in sogno da crononauta, del comandante partigiano Nosetta. Una morte terribile, dato che si apre la gola con le proprie unghie. Ebbene, l’indomani suonano alla porta, è un ragazzo, un giovane militante comunista un po’ spaurito, vuole vendergli una copia di «Lotta comunista». Da quel che abbiamo finora imparato su Nemo, facile che questi gli richiuda subito la porta in faccia, ma stavolta no, lui ancora vive l’inerzia di quell’esperienza drammatica, di quella morte che ci riporta al manto epico, o fantastico, o anche retorico che la vita e la Storia possono indossare. E quindi lo abbraccia di slancio, dicendogli «Ma lo sai che ci sono partigiani che si sono aperti la gola a mani nude?!». E quello che fa? La vita normale, la prosaica quotidianità, come reagisce a tutto questo? Semplice, se la dà a gambe.
Questa è una fuga. Ed ecco perché in precedenza ho detto che l’atteggiamento di Nemo, dopotutto, non è nella fuga che si risolve. Al contrario, il suo è un atteggiamento di finale, estrema, quasi superumana accettazione della lezione assimilata: piangendo al capezzale del padre, Nemo pronuncia la sua abiura del disimpegno sterile in cui era vissuto finora: «Prenderò il nulla sul serio», dice. «Non mi muoverò, terrò la posizione, sarà il nulla al centro del tempo».
Ed è interessante che questo “lasciare andare” il Novecento accettandolo, in una riconciliazione suggerita dal vento tiepido della sera romana, proprio a Roma, città sintesi, trovi alla fine il suo teatro.

Però, per capirlo e acquisirlo, il coraggio di questa banalità, è stato prima necessario scrivere, tradurre e vivere la vita e la storia in modo pirotecnico e fantasioso, come fanno Nemo e Marco Rossari, attraverso quell’esercizio che Pontiggia, in riferimento al vero significato dello scrivere, chiamava INVENIRE, che in latino significa ‘trovare’. Inventare, frequentativo di invenire, vuol dire essenzialmente scoprire quello che non si sapeva di conoscere, trovare ciò che non si sapeva esistesse. Succede ai protagonisti dei bei romanzi, ai loro autori, e ai loro lettori.

Quanto a La stanza profonda di Vanni Santoni, qui il discorso si allaccia a quanto detto prima sulla fantasia e la re-invenzione come strumenti per vivere nel tempo e sulla fisionomia che questo tempo assume di fronte a noi. Se il Novecento protagonista del romanzo di Rossari, come già detto, è sospinto da un motore il cui combustibile è la sempiterna lotta fra Tradizione e Avanguardia, ecco che Santoni ha a che fare con uno spazio ancora più confuso, che offre meno appigli e meno categorie intelligibili. Il presente, il Tempo di Santoni, della sua voce narrante in seconda persona singolare, è quello dei nati nella seconda metà degli anni Settanta che hanno speso e spendono tanto tempo ed energie per creare i loro mondi.

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Qui abbiamo i giochi di ruolo; nel precedente romanzo, Muro di casse, veniva esplorato il mondo dei rave party, e il senso di un ecosistema chiuso, comunitario, era presente anche nel romanzo di esordio, il tondelliano Gli interessi in comune.
Vogliamo parlare di controcultura? Possiamo, ma ciò che conta è tener presente come negli spazi autoreferenziali in ambito controculturale, se così vogliamo definirlo (musica, droghe, giochi di ruolo) i linguaggi sono più confusi e sovrapposti. In pratica, se non c’è più la dialettica Tradizione-Avanguardia, si tratta qui di una contrapposizione nuova, tra chi ha accesso alla narrazione mainstream e chi, per esistere, ne deve condurre una alternativa, uno spazio ulteriore, con i suoi paesaggi, linguaggi, regole interne.
Il gioco di ruolo, in particolare Dungeons and Dragons, è appunto «come un teatro», viene ribadito più volte nel romanzo, dove per costruire e recitare un ruolo devi, per prima cosa, inventarlo. E se dunque aveva ragione Tolkien, se l’immaginazione è una sub-creazione, avvicinandosi al concetto del senso della scrittura secondo Pontiggia prima citato, ecco che per conquistare il proprio legittimo spazio a latere della “narrazione ufficiale” i protagonisti del romanzo di Santoni, ma anche il Nemo di Rossari, compiono tutto sommato un percorso analogo. REINVENTANO, appunto: Ne La stanza profonda scendendo le scale e chiudendosi in pochi metri quadri che però si spalancano all’infinito, mentre in Le cento vite di Nemesio “la stanza profonda” – profonda davvero – è tutto il peso della memoria collettiva e dell’esperienza paterna da fronteggiare come fa il pirata Jack Sparrow quando si getta tra le fauci del Kraken.

È un piglio ugualmente affilato quello che caratterizza i due romanzi. In alcuni passaggi de La stanza profonda si tratta di satira, più che di parodia: significativa la scena in cui i protagonisti vengono invitati al programma Vivi Mattina della RAI per difendere i giochi di ruolo accusati di aver provocato il suicidio di un ragazzo, e, in parte, l’incursione dei Carabinieri nello scantinato dove i giocatori si riuniscono, le cui dinamiche, forse vissute da tutti almeno una volta nella vita, ci riportano indietro di anni.

I punti di contatto hanno anche a fare con l’oggettologia alla quale abbiamo già accennato. Nel romanzo di Rossari si trovano disseminati oggetti-pretesto, come la corona di cartapesta, che non sono correlativi oggettivi perché non risultano legati a un’esperienza sensoriale tale da sprigionare direttamente l’esperienza altra della memoria. Nemmeno ne La stanza profonda gli oggetti sono altrettanti inneschi, ma il loro ruolo è comunque più immediato ed esplicito, perché per lunghi tratti, specie all’inizio, il libro indugia con evidente gusto su un intero campionario di giochi che, per chi oggi ha quaranta anni, sono ben più che giocattoli: le BMX, i Transformers, i Gi-I-Joe, i giochi di ruolo stessi, certa nomenclatura – «il ponte Arcobaleno» tratto da Topolino e la Spada di Ghiaccio – e tantissime altre cose. Sono oggetti che sembrano in realtà assumere la valenza di rovine del bel tempo che fu, e hanno dunque funzione di uno spartiacque tra un prima – quello spazio dell’infanzia e adolescenza celebrato in modo struggente anche da Stephen King – e un dopo, che in realtà è un adesso, il presente su cui scorre lo sguardo del protagonista quando rientra al paese dal capoluogo, dove i genitori gli hanno lasciato una casa: «In fondo, all’orizzonte, rosso di mattoni, ecco il palazzo del Podestà con la sua torre: era già un guscio vuoto anni fa ma almeno l’averci buttato per un po’ le Poste, l’anagrafe, gli aveva reso senso. Ora è nuovamente un monumento al niente, proiettato verso un’epoca in cui il passato sarà così passato da schiacciarsi, con buona pace dei nonni partigiani: gli anni Trenta, gli Ottanta, arriverà a dire qualcuno, qual era, poi, la differenza? In entrambi c’era qualcosa, e ora non c’è niente...». L’antidoto a questa piattezza, assenza di passato che si traduce già agli occhi in privazione del futuro, è tornare al gioco – come per Nemo c’è bisogno di riappropriarsi del passato, del Novecento, ritraducendolo con vitalità canagliesca, per il motivo contrario, vale a dire superare l’ingombro asfissiante di questa Tradizione incarnata tutta dal Padre – «Tornate nel gioco, e fino a notte. E sì, pensi mentre amministri la fine di quello scontro, sembrava quasi che voi, voi rimasti, foste ancora tutti lì per il gioco; o meglio il gioco rappresentava l’ostinazione di alcuni, la prudenza di altri, la necessità di altri ancora, di rimanere nella terra desolata, e anche tu, del resto, non te ne eri già andato nel capoluogo? E quante volte avevi considerato l’idea di spostarti ancora più in là, di lasciare l’Italia, ma non sarebbe stato spaventoso, poi, rientrare? Se ti capita di dover tornare, hai bisogno di un’Itaca, non di una Mordor».