Mia nonna aveva un metodo infallibile per farmi addormentare: mi raccontava storie terrifiche. Camera immersa nel buio, un lumicino per provocare un’ombra guizzante sulle ante dell’armadio, porta socchiusa e lettone scricchiolante al minimo sospiro di tarlo. In un angolo, il baule recapitato direttamente – non ne ho mai dubitato – dalla locanda dell’“Ammiraglio Benbow”. Un tempo erano così le camere, più legno che design. Non dormi ancora? E vai con la storiaccia dark.

Il libro con le fiabe dei fratelli Grimm mi fa compagnia da qualche tempo sul comodino. Comodino poi... tavolino Ikea Lack bianco, (s)quadrato, lampada che per digitare il modello mancano i tasti del computer, letto che non emette un cigolio neanche se ci si butta a peso morto il lupo dopo aver fatto un solo boccone di nonna, Cappuccetto Rosso e cestino della mamma. Funzionalità essenziale, da esorcizzare con l’ultima cosa che fa compagnia agli occhi e all’anima prima di sognare, o al momento di voltarsi a spegnere la luce, un libro, appunto, con una bella copertina: una casetta nel folto del bosco, quella dell’orco, ovviamente.

Materasso super rigido ottimo per il mal di schiena (quello di mia nonna, riempito di lana, dopo un minuto era un’amaca su cui avrebbe stentato a prendere sonno un filibustiere dei sette mari), lampadina led a basso consumo, mobili minimal: mi provocate, mi volete riportare alla realtà dei miei tempi moderni, mal di schiena compreso? Ebbene, chi di efficienza nordica ferisce, di magiche atmosfere nordiche perisce. Io vi piazzo lì, in cima alla pila, i vecchi Jacob e Wilhelm, che vagavano per le cupe lande teutoniche, Foresta Nera compresa, in cerca di storie e di streghe. E le trovavano, eccome.

A me quello che mi piace delle storie dei fratelli Grimm è che ci sono sempre tre prove da superare, e chi ce la fa è il fratello minore, quello che in casa è considerato un buono a nulla, ed effettivamente lo è, il che significa, per chiudere il sillogismo, che anch'io spero di superare un giorno la prova, qualunque sia. E poi, in quanto a tinte fosche, li trovo in sintonia con mia nonna, appena più soft i due, a voler essere pignoli. Le streghe della Tuscia, specializzate nel portar via bambini cattivi, non avevano nulla da invidiare alla vecchia malvagia che rimpinzava Hänsel per papparselo appena fosse diventato abbastanza grasso. Con la coinvolgente aggravante che, quand’ero piccino io, tutti i bambini erano cattivi per prassi ideologica dei grandi, che ti davano sempre torto e, se la maestra ti picchiava, te le davano pure per sopra, come si diceva noi un po’ più a sud di Dante. I bambini buoni, da non terrorizzare con storie truculente, sono venuti dopo, a noi il racconto più idillico che ci poteva capitare era la lamentevole storia della piccola dei fiammiferi. Tutte le nostre lacrime vengono da lì – grazie Hans Christian – come gli scrittori russi dal cappotto di Gogol’.

Sarà per quelle prove da superare, per quel sentimento di riscatto in perenne attesa di soddisfazione, che sono rimasto così legato – per mezzo di cigolante catena come il fantasma di Canterville – alle storie lette o ascoltate durante l’infanzia. Più ci rifletto, più mi sembrano roba da grandi, altro che per ragazzi! Quelle venute dopo, quelle che leggiamo quando lo specchio ci dice che i grandi ora siamo noi (nelle fiabe lo specchio procura sempre guai e vendette), non ne sono che una pallida parodia. Adattamenti al gusto di chi non sa più riconoscere i sapori puri, di chi ha ormai la fantasia atrofizzata. Che cosa sarà mai una camera d’albergo di Manhattan dove la donna delle pulizie ha appena sbudellato il serial killer che ha appena fatto a fette il ragazzo dell’ascensore? Vuoi mettere con l’angoscia metafisica di Pollicino abbandonato nel bosco?

Io, da bambino, quei problemi di fantasia non ce li avevo, e nemmeno da ragazzo. Non c’era bisogno che mi descrivessero piastrella per piastrella come scorreva il sangue per sentirlo pulsare nelle vene degli eroi. E quando leggevo, ero lì, per davvero, nascosto nel barile di mele sulla Hispaniola, a sorprendere i piani malvagi di Long John Silver, o sotto il ponte di coperta del Pequod, ad ascoltare il ticchettio della mascella di capodoglio del capitano Achab sopra la mia testa. Perfetta, spontanea, connaturata applicazione del metodo Stanislavskij nella lettura, impossibile da riprodurre passata la linea d’ombra dell’età puberale. Se non ricordo male, fu proprio quando mi imbattei per la prima volta nella balena bianca che mi costruii con un pezzo di legno una pipa, per accompagnare la lettura, come quella dell’intrepido secondo ufficiale Stubb, presumo. E credo che più di un incidente di gioco, dovuto a eccessivo realismo nella costruzione di archi e frecce, e relativa mira, fosse imputabile a Robin Hood e agli allegri compari della foresta di Sherwood, in attesa che un ruolo maggiore da assegnare a Lady Marian indirizzasse altrove i miei interessi.

Letteratura per l’infanzia? Letteratura per ragazzi? Di avventura? Mah, per quanto mi riguarda, letteratura di spirito e corpo (di mille balene, ovviamente!), di sensi – qualcuno in più dei tradizionali cinque – e anima. Gli ululati di Buck risuonano sempre, perenni come la foresta. E spero che, dopo John Thornton, un giorno o l’altro lui e il suo branco di lupi vendichino anche me. Per che cosa? A piacere, non c’è che l’imbarazzo della scelta, la vita civile offre un’ampia gamma di torti subiti. E dico la verità, la battuta finale più memorabile di un romanzo per me rimane e rimarrà sempre «Pezzi da otto! Pezzi da otto!», pronunciata dal capitano Flint, il pappagallo, naturalmente. Quale sia invece l’incipit più denso, poi, neanche a parlarne: «Chiamatemi Ismaele» comprende tutto l’universo umano, e quel che segue tre righe sotto, «Quando mi accorgo che la ruga attorno alla mia bocca si fa più profonda; quando un umido monotono novembre si insinua nella mia anima […] sento che è venuto il momento di prendere il mare», fa apparire le opere di Freud e di Jung come minimo superflue.

Letteratura che tesse i nostri sogni, senza i quali, come si sa, saremmo ben più debole materia. Ecco perché Shahrazàd è detta la tessitrice delle notti. Solo raccontandoci storie si arriva indenni alla luce del mattino, credo sia questo il messaggio. E non è che le storie che ogni notte racconta al sultano, per ritrovarsi con la testa ancora sul collo al sorgere del sole, a guardar bene, fossero tutte più allegre di quelle che mia nonna raccontava a me sul lettone, tra ombre, armadi, bauli e lumicini. Care, vecchie storie raccontate come si racconta ogni storia, nella maniera più semplice. «Comincia dal principio e vai avanti finché non arrivi alla fine, allora fermati», dice il Re al Bianconiglio. In mezzo c’è il resto, ovvero tutto.

 

Enrico Bistazzoni svolge l'attività di lettore, redattore e traduttore per diverse case editrici e agenzie letterarie. Ha pubblicato libri dedicati alla storia e alle tradizioni di Porto Ercole, dov’è nato. Ha collaborato per molti anni con il quotidiano «Il Tirreno» e con emittenti televisive locali. Nell’ambito del format “Quante storie vuoi” ha curato lo spazio “Errata Corrige”, dedicato al mondo dell’editoria, e “Note a margine”, strisce di tre minuti in cui si illustrano vite e opere dei grandi autori della letteratura.

L'illustrazione è di Chelsea Wong, Moby Dick.