È un po’ che non mi faccio del male, a sentire la mia psicanalista. Così decido di partecipare a un concorso letterario per racconti inediti. Un concorso serio, per di più. Serio e unico nel suo genere. Si tratta di leggere il proprio elaborato davanti a una giuria di professionisti scelti per l’occasione, accompagnati da un pubblico in sala che immagino essersi premunito di cestini con frutta a guscio pronta per noi concorrenti. Segue una fase di valutazione critica da parte dei giurati, con un punteggio da uno a dieci espresso per alzata di cartellini, come nelle gare di tuffo olimpionico. E in effetti quello che propongo per la serata è un racconto da doppio carpiato, tutto incentrato sulla mia peggiore fobia, dopo quella per le aragoste, si capisce. Leggerlo in pubblico dovrebbe somigliare grossomodo a uno di quegli incubi notturni in cui saltelli in giro per l’ufficio, lungo i marciapiedi della città, davanti al tuo bar all’ora dell’aperitivo e poi ti accorgi di essere uscito di casa completamente nudo.
Prima di fare questa esperienza però, è necessario sbrigare una formalità. Si tratta di superare una semplice selezione all’ingresso.

Scrivo, correggo, piango e invio. Poi mi collego con il sito della segreteria del concorso per ricevere aggiornamenti. I racconti pervenuti sono millecentoventuno. Un numero abbacinante. I selezionatori annunciano la notizia con tono dimesso, la stampante dell’ufficio ha messo le gambe ed è andata via in ascensore nella notte. Fossi uno che corre, andrei a correre. Invece sono uno che beve.

Per due settimane mi impongo di scordarmi del concorso, ci riesco così bene che quando ricevo la loro mail di risposta sono tentato di gettarla nel cestino insieme agli avvisi di aste online. Ce l’ho fatta, mi attende la commissione di Flashdance. Almeno sapessi ballare. Seguono istruzioni per la partecipazione alla serata di presentazione e consigli per impressionare i giurati. Non ultimo, quello di esercitarsi a casa per prepararsi al meglio alla lettura in pubblico. Il Gassman che è in me scalpita al pensiero. Ma non ci sono più gli elenchi del telefono, dovrò trovare qualcos’altro.
La serata si avvicina, il battage mediatico incalza. Sulla pagina ufficiale compaiono le biografie dei miei avversari e subito mi balza all’occhio un particolare. Sono tutte ragazze. Non ho speranze, non in questo secolo. Sbircio le foto, vedo una Emma Cline di qua, una Alice Munro – ho detto ragazze? Intendevo dire donne – di là. Mi pare addirittura di scorgere qualcosa della Banana Yoshimoto in un volto tra i tanti, ma forse è il taglio di capelli che mi manda in confusione. E in effetti i testi sono disomogenei, multiformi. Si va da un episodio di molestie sessuali infantili al funerale di un diversamente abile, passando per storie di figlie di genitori divorziati e sorelle acquisite, ricordi delle nonne decedute o quasi, liste di oggetti di utilizzo quotidiano organizzate per metafore di interesse decrescente. Una riserva indiana del sentimento a tinte scure.

L’evento, in zona San Lorenzo, garantisce atmosfere universitarie e difficoltà di parcheggio, ma anche birra a prezzi modici. Le concorrenti si presentano in gruppo compatto e infatti sono l’unico rimasto senza un posto sul divanetto mentre intorno a me è tutto un fiorire di prove microfono e distribuzioni di flyer per corsi di scrittura a pagamento. Martin Amis era solito raccontare della differenza tra scrittori inglesi – accademici ossequiosi in giacca di tweed e farfallino, tempie ingrigite, matite nel taschino – e scrittori statunitensi, un crogiolo di razze e culture differenti, chi in bermuda e maglietta della salute, chi in completi tradizionali dei nativi americani. Qui siamo dalle parti degli amici a stelle e strisce; il mio castigato pullover nero si distingue per difetto. Il mio racconto, anche. Parlo di insetti, di reminiscenze dell’infanzia, di un – freudiano? – rapporto madre figlio appartenuto a una estate di tanti anni prima. Mi prendo sempre troppo sul serio, ecco il mio problema. L’organizzatore del concorso si presenta a noi con una stretta di mano, ci chiama per nome «E tu devi essere – ci guardiamo nel silenzio generale – certo, chiaro». A toglierci dall’imbarazzo è Bonobo che parte a tutto volume dalle casse a terra. Ed è subito Pigneto. I giurati prendono posto, siamo ai blocchi di partenza.

Sarà per l’atmosfera da fine del mondo, più probabilmente per un mero caso di orgoglio maschile da spogliatoio, decido che salirò su quel palco e leggerò come fosse il mio testamento alle generazioni future. Stupire il pubblico, convincere i quattro giurati. Sono l’unico uomo, e che diamine.
«Permettetemi di esprimere la mia felicità per la presenza tra i concorrenti di un così alto numero di donne», parte a testa bassa il presidente di giuria, «iniziamo con la gara».
Le ragazze vanno forte, perlopiù. Qualcuna si commuove, qualcun’altra fa commuovere. Però a tratti intravedo sbadigli nelle retrovie. I cartellini dei giurati si alzano e si abbassano senza lasciare scampo. Nella tonnara di un pub romano in serata infrasettimanale fioccano i tre, i quattro, le stroncature che non lasciano speranza. E allora ti chiedi se la psicanalista tiene il telefono acceso anche la sera, ti domandi perché la gente comune a quest’ora è davanti all’ultima stagione di The Walking Dead e tu sei lì con il bruciore allo stomaco manco fosse la prima visita dall’urologo.

È il mio turno. Luci basse, microfono in posizione. E il pubblico applaude, è dalla mia. Mi regala almeno tredici voti a favore. Dai giurati prendo due sei e due sette. L’esame di dottorato in confronto è stato un risciacquo a trenta gradi.
Chiudo con un terzo posto in classifica generale e la convinzione che il bello della comunità letteraria in fondo è tutto qui, in un ritrovarsi casuale di lettori e scrittori da millennio Masterchef – o Cucine da incubo, come nel mio caso – disposti a sfidarsi all’arma bianca a prescindere dall’arena, dal contesto. Si torna bambini, sui banchi di scuola, a confrontarsi i temi e fare la differenza tra stile e contenuto, tra sentimento e trama. Com’è da sempre, forse.

Piero Balzoni è script editor e sceneggiatore per la televisione. Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e riviste di critica. Come uccidere le aragoste, il suo romanzo d’esordio, è uscito nel 2015 per Giulio Perrone editore. Vive a Roma, dove morirà.