Non sappiamo se inaugurando questo spazio che aggiorneremo a scadenze irregolari riusciremo a esser vaghi abbastanza. Ma l'impegno è presto dichiarato: poca concretezza, pochissimo tempo speso a inzuppare lo sguardo intorno, e la promessa che a ogni minimo accenno di oggettività, a ogni vuoto d'aria che rischi di farci perdere quota, a ogni tentazione di caricare a bordo valigiate di osservazioni e analisi, noi resisteremo con brusche cabrate. Solo bagaglio a mano, grazie. E senza chiudere gli sportelli delle cappelliere, per carità. Ché le vaghèzie sono fatte per cadere, capriolare e mischiarsi un po' tra loro.

Certo, attacchi radenti di realtà, saranno qua e là  inevitabili. L'importante è avere i riflessi pronti per correggere la rotta.

Alleniamoci... Ecco. Prendiamo quel lampione, il solito lampione da giardino affogato nel verde, visibile dalla nostra postazione sul divano e che un po' disturba col suo riflesso la televisione accesa; prendiamolo una di queste sere, una delle ultime che accogliamo con le finestre aperte...

Quel lampione non è un lampione. È la Luce Verde. È il Grande Gatsby. È il Desiderio. Perché c'è un'immagine, sapete. E c'è un paragrafo che la racchiude. Il secondo è più celebre della prima, mandato a memoria da molti di coloro che hanno fatto dello scrivere una ragione di vita, o più semplicemente una professione, o più saggiamente un passatempo. È il paragrafo finale del Grande Gatsby, capolavoro di F. S. Fitzgerald che, ci dicono dal 1997 o dal 1980 o giù di lì gli articolisti di moda e costume, è tornato-sta tornando-tornerà a influenzare il nostro sguardo e la nostra ricerca estetica.

Stavolta, in effetti, parrebbe la volta buona: nel 2013 uscirà nelle sale la versione cinematografica del romanzo diretta da Baz Luhrmann, con Leonardo Di Caprio nel title role che fu già di Robert Redford. E arriviamo all'immagine di cui sopra: Redford, anzi un uomo, anzi il profilo notturno di un uomo sbalzato sull'aria viola dopo il tramonto, fissa con manieristico ardore la luce verde che pulsa all'altro capo della baia. Ma anche se è là che vive Desy, quel che Jay Gatsby si ostina a fissare non è la donna che ama da sempre, né una sua puntiforme sineddoche.

Non si tratta di contemplare una meta. Non è la donna amata, quel lume, ma l'amore. Non è un'ossessione da inseguire, ma un riverbero che dell'inseguimento è tutto ciò che resta. L'intermittenza del respiro mozzo di chi ha compiuto un lungo cammino. Il «futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi» di cui scrive Fitzgerald, il sogno che «era già alle sue spalle». Il "ma" che gocciola come sciroppo amaro su ogni arrivo, e il cui presentimento fa tremare già prima, mentre si va avanti comunque, perché al di là di ogni poetica da sabato, in villaggio come nello stretto di Long Island, non c'è niente di peggio che restar prigionieri di quel presentimento, di quel cammino, del sogno ormai autosufficiente, ipertrofico, staccato da noi. Gatsby crede, ma in qualcosa che non è più. Guarda, con braccia protese su quel tratto di notte, e scorge il sogno da lui allevato come un cucciolo e che, ormai cresciuto, lo divora ogni giorno.

Chi ha l'arma del romanticismo puntata alla propria testa – chi, per dire, s'è messo in testa di scrivere – è forse sfiorato dagli stessi fantasmi: il desiderio... la parola "fine"... IL LIBRO. E il picchiettare dei tasti, per chissà quante notti, a segnare il passo della paura che fa la riverenza e balla il minuetto insieme a una strana forma di soddisfazione di sé. Una luminosa solitudine. Come quella del povero lampione, là in giardino, che tanto povero e innocuo non è, se è stato in grado di innescare simili pensieri. Ma alla TV non c'è niente, la notte è ancora soffice, lasciamo perdere tutto, son solo vaghèzie.

Intanto, però, un grazie a Cesare Zavattini dal quale abbiamo preso in prestito il titolo di questa rubrica.